Autobiografia
(Lalla Romano, da Autodizionario degli scrittori italiani.)
Il suo nome dal bel suono rotondo – il suo nome di bambina – regge ancora a ottantatré anni? Lei non dà molto peso alle date e quindi la questione non si pone. Comunque si è chiamata anche Graziella Monti: come insegnante di scuola media, come consorte di un impiegato di banca, poi funzionario, poi chairman. La distinzione è stata comoda, dice, per scantonare.
Lalla Romano ama i suoi libri, non troppo se stessa; se viene proclamato il suo nome, prova imbarazzo. Perfino disagio. In quanto alla tarda età, anche di questo non si vergogna, come persona, ma in un certo senso come autore: supponendo negli altri l’aspettativa di una maggiore importanza.
La cosa ha risvolti comici. La Romano ha riso di cuore alla simpatica gaffe del suo editore (nuovo) che le disse ammirato: «Ma tu sei lucidissima!». Lei sa – lo ha appreso dal suo medico – che altra è l’età anagrafica, altra l’età biologica, che è quella reale. «Se fossero anche dieci di meno» – commenta – «sarei comunque vecchissima». L’argomento, per quanto sgradevole, per chi vecchio non è, pare inevitabile. Lei sostiene, se glielo domandano, di non aver tempo né voglia di rammaricare la fuga degli anni; e condensa questa accettazione servendosi di una frase di Canetti: «Io ho “il potere della sopravvivenza”». Amara – o confortante? – ammissione. A un amico che l’accusava di prepotenza, ha risposto: «Siccome non sono potente, sono prepotente». Il bello è che lei pensa di non avere potere proprio a causa della sua scarsa anzi inesistente aggressività. La grinta bisogna averla prima, non dopo. Ma la ragione è certamente un’altra.
Di fatto fin dai suoi primi libri lettori appassionati le mandano lettere commoventissime; alcuni pubblicano articoli, se è il loro mestiere. E l’impressione curiosa è che tutti scrivano con una sorta di ammirato stupore, come per una scoperta. E lei pensa appunto di non essere stata ancora scoperta.
Ha una precisa idea sulla propria scrittura e per sé non ha alcun bisogno di conferme. Negli anni le incomprensioni sono state rarissime; forse di grosse una sola, anche reiterata. Ma di quella quasi si compiace, siccome viene da un lettore grossolano (bollato allegramente una volta per tutte dal grande Landolfi con certi versi in cui «vigoreggia» fa rima con «scorreggia»).
Lalla riconosce di aver avuto anche troppo successo nella vita, ed è consapevole che altrettanto successo nell’arte comporterebbe seccature, perdita della pace, della libertà.
Il famoso (uggioso) conflitto tra “l’io che scrive” e “l’io che vive” per la Romano non si è mai posto. Con audacia lei accettò o meglio propose la sfida. A se stessa anzitutto. Sapeva che l’espressione, cioè l’arte, era il compito della sua esistenza, ma non pensò per anni alla “pubblicazione”. Considerava quel compito non sociale, ma segreto.
Per tutta la sua lunga vita non ci fu mai divario tra l’esistenza cosiddetta reale e il suo scrivere (o dipingere). Lei afferma: come uno vive, così scrive. E come vive Lalla Romano? Trovò una volta in Flaubert una definizione della sua linea: «Siate borghesi nella vita, per essere originali nell’arte».
E la sua vita, in quanto a isolamento, indipendenza, è perfettamente riuscita. Eppure lei è ratée (fallita) proprio come borghese. Deve alla pazienza delle persone che la amano se la sua buona volontà è riconosciuta e la sua inettitudine – sia casalinga che sociale – compatita, soccorsa. Un guaio semmai è quello di aver trascurato, per disattenzione, certi aspetti pratici del suo lavoro: contratti, editing, diffusione, ecc. Segno, questo, di “scarsa professionalità”, come si dice. Per lei sono miserie: non ne valuta la necessità.
La sua esistenza, dunque, come il suo lavoro, non fu pianificata. È stata una lenta crescita, un mutamento quasi impercettibile. Una persistente identità nel tempo.
La prima opera edita di Lalla Romano era di poesia (Fiore); la seconda (Le metamorfosi), pure essenzialmente poetica, consisteva di brevi prose (relazioni di sogni) raggruppate sotto epigrafi immaginarie che ne suggerivano l’ispirazione. Solo Vittorini la trovò divertente; ne lodò anche la preziosità letteraria, di carattere europeo. Era un po’ un libro della fine e invece fu al principio. Tale è stato l’esordio di Lalla Romano.
Il terzo libro, Maria, piacque anche alla gente, ma fu vittima di un equivoco: lo considerarono un’espressione del neorealismo, ma era una sciocchezza. L’equivoco fu ribadito con La penombra che abbiamo attraversato. All’autrice affibbiarono il titolo in apparenza non offensivo, anzi nobile, di “scrittrice della memoria”. Titolo generico, insufficiente; infine anche falso, in quanto usato nell’accezione di “scrittore di ricordi”. La Romano considera aneddotica i ricordi, una sorta di pettegolezzo interiore. Così, altrettanto facile e superficiale l’accusa di autobiografismo per tutti i romanzi seguenti. Solo Una giovinezza inventata era in parte anche questo, come testimonianza di un ambiente e di un tempo.
Lalla Romano afferma che non intende dare notizie di sé. Usa la prima persona perché l’autentico non le fa paura. La memoria per lei è invenzione, libertà.
Qual è dunque l’oggetto della sua scrittura? Non è la scrittura stessa, che sembra il massimo della purezza, mentre è una specie di vizio, anche se per qualcuno può essere necessario. L’arte è sempre astratta, ma è meglio che uno non se lo proponga, scrivendo.
La scrittura, secondo Lalla Romano, ha solo il compito della trasparenza. La vita, l’esistenza è troppo ricca, è implacabile. Lei si appella al particolare formarsi della sua scelta espressiva fin dall’origine. La registrazione nella memoria di eventi (momenti che diventeranno parola) accade in lei con una immediatezza che lei stessa definisce fulminea. Lalla chiama «eterno presente» quel tempo, quei frammenti di tempo ritrovati intatti. Sa che forse “non è stato così”, ma le basta che sia vero adesso. Ciò che è stato prezioso una volta, lo è per sempre. I momenti “ritrovati”, aggregandosi, compongono qualcosa di nuovo, di unico: il libro. E la gioia, sempre imprevista, incredibile, sta nello scoprire che altri (i lettori) ci si riconoscono. Non si può chiedere di più a un libro.
La fedeltà di Lalla Romano alla vita l’ha difesa dalla vanità, la tiene al margine della società letteraria. «Ho scritto dei libri» – dice – «ma non sono vissuta “da scrittrice”. Non ho neanche la classica fotografia con un gatto».
Già al primo romanzo, Maria, il poeta-critico del «Corriere» aveva scritto: «Se portasse un nome straniero…». Adesso, a distanza di tanti anni e dopo tanti libri, il prestigioso critico del «Giornale» (mano di ferro e guanto di velluto) ha ripetuto il se, ancora più drammatico, anzi tragico: «Se non fosse nata a Demonte … il suo nome avrebbe una risonanza internazionale».
«Nata a Demonte» vuol dire tante cose, e infine l’essenziale. Cioè, la fama e la non-fama, la gloria o la cancellazione o, quel che è peggio, la mediocrità discendono, per lei come per chiunque, da come si è, da come si è vissuti, circostanze comprese. Lalla non crede alla fortuna e pensa che se non ha avuto di più lo deve a una insufficienza sua: e non alla debolezza, magari proprio alla forza della sua scrittura.
(Lalla Romano, in Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese, Leonardo, Milano 1989, pp. 299-302).