Romanzo di figure
Romanzo di figure. Lettura di un'immagine, Fotografie di Roberto Romano, Einaudi, 1986
Incipit
La bambina della copertina è una delle figure venute alla luce – è il caso di dirlo – col ritrovamento, nella mia casa di Cuneo, delle lastre di cui ignoravo l'esistenza. La sua immagine non rientrava nell'ordine della composizione preesistente, come le altre – in un certo numero – che ho inserito perché non solo si integravano, ma anche arricchivano il senso dei capitoli.
Lalla Romano, dalla premessa.
Antologia della critica
Forse perché da sempre è stata vicina alle arti visive (era pittrice prima di scrivere e allieva di Casorati), Lalla Romano ha fatto della fotografia un tema ricorrente in molti suoi libri. […]
Immagini senza storia: nei testi che le accompagnano la scrittrice non fornisce la loro data esatta, né i nomi dei personaggi, né racconta storie (che sarebbero fuorvianti). Si concentra invece sui sentimenti nascosti tra le ombre del bianco e nero, e sui dettagli che registra con un’acutezza minuziosa, finché le parole diventano strumenti ordinatori che guidano la percezione del lettore a scoprire sfumature lievissime.
Livia Manera
«La Repubblica», 26 settembre 1986
Lalla Romano non ha soltanto riaperto il libro dei ricordi di famiglia per rivederli sotto una luce diversa e riraccontarli con una lingua che ha ulteriormente affinato i propri strumenti; ha rivisto documenti cambiati rispetto alla sua conoscenza precedente. Ciò significa lo spostamento dell’osservazione da una critica simpatetica e d’impressione a un’analisi della costruzione del testo,insieme alla persuasione della sua relativa «provvisorietà». L’appuntamento con l’album familiare esce dai limiti di un interesse profondo e personale, per quanto comunicato con mezzi letterari e movimenti affettivi, che parlano a noi tutti; l’avvenimento diventa insieme un episodio letterario e un fatto di critica fotografica. Alcune riflessioni dell’autrice sul rapporto fra la macchina e il suo oggetto, la visione della macchina fotografica come un possibile strumento di violazione, se non di violenza, autorizzano all’interpretazione che si è detta. […]
Il rapporto fra la fotografia e la parola stampata, il bisogno che ha la fotografia della parola, emergono infatti in quest’occasione in modo chiarissimo.
Carlo Bertelli
«Corriere del Ticino» [Lugano], 1° ottobre 1986
Il rapporto della scrittrice con la fotografia è di costante attenzione e rivela persino una certa conflittualità («la macchina fotografica è un simbolo di violenza, di violazione?»). Nelle opere di Lalla Romano la fotografia riveste una peculiare funzione narrativa, diventando di volta in volta personaggio o momento romanzesco, e – cosa ancor più importante – nuovo taglio dello sguardo ordinatore. Le fasi della rappresentazione assumono nelle pagine della scrittrice una valenza figurativa specialissima e unica, in cui l’occhio fotografico si allea all’archivio della memoria per costruire un mondo inconfondibile.
Basti ricordare, a titolo di esempio, il ruolo strutturante che hanno le foto ricordo nel romanzo Maria, il continuo riferimento alle fotografie fatte appunto dal padre nella Penombra, in cui esse giocano con la memoria, sollecitando il ricordo, inventando la parola; o anche le intriganti foto del figlio, che diventano, ne Le parole tra noi leggere e in altri romanzi, suggestive chiavi di interpretazione dei personaggi e del complicato rapporto che tra loro si intreccia. Gli esempi potrebbero continuare sino a La treccia di Tatiana.
In realtà si potrebbe leggere l’opera di Lalla Romano camminando sul bordo della fotografia, quasi si trattasse di un sentiero parallelo, enigmaticamente alleato alla parola. Una presenza che – al di là dell’esplicito, frequente riferimento alle foto – si traduce in una peculiare sensibilità visiva, componente non secondaria nello stile della scrittrice.
Antonio Ria
«Corriere del Ticino» [Lugano], 1° ottobre 1986
Ogni istantanea porta una didascalia della figlia del fotografo e pare che il dialogo tra quella e questa abbia qualcosa di simile a una disarmonia amorosa, a una strana guerra della parola alla fotografia.
A volte pare che la nervosa e mobilissima scrittura della Romano, entrando a commentare e a suggerire associazioni e proposte di lettura, sollevi quasi impietosamente il velo dell’ingenuità e dell’onestà del fotografo, velo che ha salvato quel talento dalla vanità intellettuale e dal manierismo, come dice la Romano stessa nella prefazione, col consapevole intento di interrogare le istantanee e provocarle a tracciare un altro ritratto che non si vede e che non si può fotografare da nessuna parte in nessuna valle appartata, in nessun periodo storico innocente e sospeso, se non con la negletta e sfiancata arte della parola. Sì, perché è la parola la grande imputata di operazioni come La treccia di Tatiana e Romanzo di figure. La parola che, nelle mani di una delle nostre più fantasiose e feconde narratrici, si stanca di narrare da sola e si scopre seconda all’immagine, innamorata corteggiatrice del potere visivo di questa tanto più diretto e folgorante, tanto più certo e indiscutibile.
È un processo curioso: nel momento in cui l’immagine sale sul trono della parola, proprio in quel momento, nell’attimo della sua resa, la parola della narratrice si riaccende e ritorna a tutta la sua corrosiva e allusiva capacità di costruzione. Come se l’eccitazione della parola si desse solo davanti a chi la vorrebbe finalmente morta. Chi può negare che anche per questa via il romanzo possa rivitalizzarsi oggi?
Roberto Pazzi
«Corriere della Sera», 1° ottobre 1986
In questo bellissimo Romanzo di figure Lalla Romano si è limitata a far emergere dalle foto alcune osservazioni, che stanno tra la poesia e il commento garbato e musicale, forse appunto perché Lalla Romano non ha voluto turbare, con troppe parole, la bellezza, l’incanto, la sorprendente verità di queste immagini: si è limitata a rintracciare un’epoca, una data, un’ora del giorno e della stagione, contrappuntando con lieve candore, quasi con un pensiero ad alta voce, le persone, i vestiti, gli ambienti, quegli elementi specifici che sono parte integrante di un’epoca e di un’età.
Giancarlo Pandini
«La Provincia», 10 ottobre 1986
Romanzo di figure riprende il precedente Lettura di un’immagine ma in modo più completo. […]
Lunghe didascalie scritte in una prosa spezzata e poetica, molto fascinosa, accompagnano le immagini. Spiegano, sottolineano, ricordano, suggeriscono. Interpretano: un personaggio assomiglia a Flaubert, un giovane disgraziato è alla Velasquez, un ambiente alla Renoir, una ragazza è un Caravaggio con malinconia Ottocento.
Giulia Massari
«Il Giornale», 12 ottobre 1986
Quello che più continua a stupirmi è il carattere della scrittura, e la sua capacità di porsi umilmente al servizio delle foto e del progetto generale arrivando, trasversalmente (ma molto consapevolmente), a esiti che sfiorano la poesia, o che spesso, specie nelle frasi poste a sigillo dei singoli testi, sono davvero poesia. Cercando il paradosso si può persino temere che la presenza di quelle bellissime foto possa togliere qualcosa all’autonomia dei testi scritti, al loro particolare tipo di fascino, che nasce dal rispetto e dall’interesse acuto per il dettaglio, dal tono descrittivo, dalla «posizione» didascalica, senza alcuna intenzione di mascherare gli affetti. […]
Chissà, allora, se le fotografie non sottraggono abilmente al testo parte della magia allusiva di cui si nutre, svelandone troppo presto i segreti, diminuendo nel lettore la possibilità di soffermarsi su quello strano tipo d’incanto prodotto da un linguaggio che parla in modo lucido e puntuale, con apparente distacco. […]
Poiché, senza alcun dubbio, lo scritto non è affatto d’accompagnamento, e le immagini sono assai simili a quelle che possono talvolta presentarsi alla mente dello scrittore, o del poeta, prima del testo, o mentre lo compone. Ecco: è come se un aspetto privato, mentale, segreto di un autore che pensa all’opera o la sta già scrivendo, fosse qui reso a tutti visibile per opera di un’insolita, magica spia.
Quello che conta è che la scrittrice non forzi per nulla la mano al testo fotografico, lasciando che il romanzo si componga da sé; o meglio, che ne viva e si rafforzi l’ipotesi, attraverso i documenti, le parole, i vuoti.
E che il carattere, in qualche modo «definitivo», delle fotografie, venga rispecchiato dal tono del testo scritto, nel suo rigore e nella sua bellezza.
Maurizio Cucchi
«L’Unità», 17 ottobre 1986
Romanzo di figure è un libro particolare. A dipanare il filo della narrazione sono questa volta le immagini, mentre la scrittura, essenziale, spezzata, fa da contrappunto, forse da vera illustrazione. […]
Per questo il commento finisce per costituire un tutt’uno con l’immagine, senza sovrapposizioni, senza interpretazioni più o meno forzate e posticce: ma con uguale intensità. […]
Quella che si delinea nel romanzo non è comunque – come potrebbe sembrare – una storia privata, ma una vicenda in qualche modo emblematica, e perciò universale.
Rosalba Graglia
«Città», 30 ottobre 1986
Raramente le parole riescono a esprimere il particolare incanto di una fotografia, specie se scattata tanti e tanti anni fa. Le parole che «esprimono» le fotografie sono spesso sentimentaleggianti o retoriche, oppure sfociano nel mare della banalità quotidiana. Per non cadere in questo errore, Lalla Romano si è imposta uno stile quasi neutro, descrittivo, rivaleggiando con l’impassibile obiettività delle fotografie. Il suo intento era di commentare il significato della fotografia, o meglio della serie di fotografie incluse nel volume, senza però prevaricare sulla autonoma suggestione delle immagini.
Ci è riuscita. Ci è riuscita tanto bene che, senza forse volerlo, le sue didascalie si trasformano in racconto metaforico, diventato un prolungamento fantastico delle fotografie, come se le parole e le immagini entrassero a far parte di un inverosimile amalgama.
Giuseppe Bonura
«Amica», 6 novembre 1986
Ecco un altro singolare «racconto» di Lalla Romano, dove sono le immagini a comporre la narrazione. La scelta delle foto come supporto essenziale del raccontare ha come fine l’alleggerimento delle parole. […]
In questo splendido Romanzo di figure, le fotografie dei genitori dell’autrice, quelle dell’autrice stessa e della campagna piemontese si caricano di una più intensa struggente malinconia. Una malinconia severa e quieta, nata dalla consapevolezza della memoria. […]
Su questo mondo antico e perduto non pesa, ma «si posa», come un velo, la morte. Una prospettiva di tragedia, certo, ma per usare le stesse parole dell’autrice, una tragedia «pacificata».
Antonella Anedda
«Noi Donne», dicembre 1986
Lalla Romano, in questo libro, nel consegnarci i suoi recessi mentali o quelli d’altri, da lei sentiti, rimanendone affascinata, scorpora completamente il sogno dalla realtà individuale, cosicché l’immagine che s’accavalla tra il dormiveglia appena accennato e il fondo riposante delle pupille diviene pura immagine misteriosa, racconto a se stesso.
Ci troviamo di fronte a rumori interiori, ad essenze che portano la coscienza in bilico tra la vera forma delle cose e il loro ingrandirsi in facce, forme, terrori e rilassamenti. E, pur entro una controllatissima prosa, condotta a frasi brevissime, secche e linde, sembra dilaghino presenze angeliche, soffi di spiriti che forzano l’assembramento delle parole e spalancano loro l’orizzonte che sta oltre.
Fulvio Panzeri
«Como», 1986, n. 4, p. 68
Un rapporto singolare ed insolito lega in questo particolarissimo romanzo le immagini alle parole della scrittrice, composte in una sorta di didascalia che accompagna, a volte molto succinta, a volte più ampia, ogni fotografia. Nel commentare e nel suggerire associazioni o ipotesi di lettura, le parole rompono quel velo di ingenuità e di candore che ricopre l’immagine, sembrano voler interrogare, provocare, esigere da quei ritratti quella verità che non appare, quella realtà che l’obiettivo, al contrario della parola, non è in grado di portare alla luce. Ma, al tempo stesso, la scrittura non viola l’immagine, non ne svela apertamente il segreto ed il mistero, si limita ad alludere ad una realtà «altra», più profonda di quella fenomenica e sensibile, a suggerire un’ipotesi interpretativa tesa a scoprire chi fossero veramente quei personaggi ed il loro mondo. Pur essendo espressione di due diversi linguaggi, immagine e parola formano in Romanzo di figure un’unità, si completano a vicenda, creando un’unica, intensa atmosfera poetica e storica.
Mara Pannone
«L’Umanità», 4 dicembre 1986
Il padre della Romano è pittore dilettante dal «gusto educato» e nelle fotografie sa mettere un certo talento. […] Da questo repertorio, amabile e limitato, la Romano s’è avventurata a costruire con piccoli tocchi, e raggruppando le fotografie in capitoli, il suo Romanzo contemplativo.
Nel leggerlo nasce una curiosa inquietudine, come assistessimo a una animazione di fantasmi. Non che tale effetto sia ottenuto arbitrariamente, tutt’altro. Spesso procede da una analogia formale e puntualmente suggestiva. […]
Insieme col risalto di certi elementi formali, il commento coglie spesso con delicata attenzione l’espressività dei comportamenti fissati nel gesto e nei volti (o nei musi se si tratta di animali familiari come il cane Murò). […]
È difficile dire che cosa si ricava da un libro come Romanzo di figure. Non certo una storia, ma l’accenno di tante storie vissute e scomparse. Frammenti di tante decifrazioni possibili di una realtà apparentemente dimessa, la quale però si offre spontaneamente al recupero di un senso. Lalla Romano deve aver riflettuto a un fatto molto semplice: che non esistono fotografie private. Ogni fotografia è un’indiscrezione, è un atto pubblico. Però si può restituire alla fotografia, interpretandola, il suo carattere di segno intenzionalmente complesso.
Il Romanzo di figure aveva cominciato a scriverlo, senza saperlo, il padre. La figlia l’ha completato, restituendogli tutte le ambiguità e il riserbo, le malinconie e la finzione di chiaroveggenza che punteggiano l’età infantile.
Alfredo Giuliani
«La Repubblica», 13 dicembre 1986
Romanzo di figure di Lalla Romano, libro intenso e discreto, che non intende fornirci notizie sulla sua autrice ma informazione sugli anni e i luoghi (la campagna intorno a Cuneo) in cui lei nacque, nei confronti dei quali rimuove, in lei stessa e in noi lettori, la commozione della conoscenza. […]
Le fotografie sono molto belle. […] Le didascalie sono essenziali: si limitano a fornire qualche informazione sul soggetto ripreso, a metterne in evidenza questo o quel particolare, a raccogliere gli elementi per una possibile lettura. Il linguaggio delle didascalie è scarno; il ritmo spezzato, attraverso una punteggiatura abbondante, che interrompe il flusso della scrittura, un momento prima che si impenni e voli nell’ineffabile. Le parole piuttosto che nel caldo umido della memoria sembrano intinte nel dolore che lo sforzo della riflessione su un tempo ritrovato secerne.
Angelo Guglielmi
«Paese Sera», 24 dicembre 1986
Nel descrivere e commentare queste immagini, la Romano riesce quasi sempre a realizzare un felice equilibrio tra «lettura» attenta, evocazione affettuosa, mediazione colta (con espliciti richiami figurativi e letterari, da Watteau a Flaubert), restituzione di un clima sociale, naturale e umano, di un’epoca e di un mondo che saranno presto investiti dalla guerra. Si realizza così una sottile interazione e consonanza tra immagine e scrittura, che finisce per «produrre» un’opera e un libro caratterizzati da una loro specificità e originalità. In particolare, proprio il concentrarsi quasi esclusivo della scrittrice sull’immagine, come su qualcosa di autonomo e oggettivo, finisce per sottacere la memoria a vantaggio della narrazione. Che a buon diritto può definirsi «romanzo», al di là di ogni sospetto di forzatura.
Gian Carlo Ferretti
«Panorama», 4 gennaio 1987
Un libro questo della Romano, per più di una ragione, storico. […]
Quando la Romano afferma che le immagini di questo libro sono un «testo», che la scrittura attraverso la quale lei le descrive suggerisce prospettiva di «lettura», si può anche convenire con lei, ma soltanto sul piano della metafora. Le fotografie non sono un «testo», ma piuttosto possono essere un pretesto per un testo. Il percorso visivo, che il rimirante stabilisce di fronte a una fotografia, ha ben poco a vedere con la «lettura». A provare ciò, è proprio l’irrepetibile originalità affettiva e letteraria dei testi della Romano, a fronte delle fotografie di suo padre. Per cui, cambiando il rimirante, cambia pure il testo e la decodifica dei segni mediati dalle stesse immagini. Ma non soltanto. La descrizione, di volta in volta, delle fotografie non entra all’interno dei meccanismi della rappresentazione fotografica, ma si arresta, tutto sommato, alla superficie della rappresentazione, con qualche omaggio ai criteri di una composizione figurativa assai elementare.
In altre parole sembrerebbe che la Romano assai poco si sia preoccupata di esercitare (proprio nell’occasione della nuova riproposizione del precedente Lettura di un’immagine) una riflessione rinnovata su quell’«acte photographique» sul quale alla Sorbonne nel 1982, si tenne un colloquio di tre giorni e del quale sono stati pubblicati gli atti. E per non correre il rischio di essere frainteso, osserverei che la mancanza, diciamo così, di questo adeguamento non mi dispiace, anzi. Romanzo di figure acquista così lo spessore di un documento non soltanto – come scrive la Romano – della lontananza nel tempo di figure le cui storie sono «dimenticate in una prospettiva reale, ma non meno emblematica», documento pure di uno dei primi incontri tra fotografia e scrittura nell’ultimo decennio.
Angelo Schwarz
«L’Espresso», 15 febbraio 1987
Romanzo di figure, forse, assieme a Le metamorfosi, è il più sperimentale fra i romanzi della Romano: intendo sperimentale non nel senso precario delle avanguardie (si tratta, anzi, di un’opera maggiore), ma come estrema concentrazione dello strumento narrativo; la ricerca, appunto, di una dimensione espressiva misteriosa e irrevocabile, presente e lontana come quella del sogno. […]
In Romanzo di figure l’immagine è trattata come il sogno, o come la memoria, proprio per questa commistione di finitezza e infinitezza carica di significato; ma anche la parola riproduce l’esattezza di questa unione, che è l’esattezza di ogni immagine significativa. I commenti dunque non «spiegano» ma, al contrario, rafforzano il valore assoluto dell’immagine, che sta appunto in ciò che non si esprime direttamente, pur assumendo una veste compiuta e definitiva: «l’immagine» – si può parafrasare – «è la sua propria interpretazione». Così essa viene ad un tempo chiarita e fatta segreta, fissata e resa universale; viene privata del suo valore contingente ed elevata in una sfera contemplativa; viene sottratta al dolore del tempo e portata, in altre parole, alla pienezza artistica.
Ciò che rende singolare – forse senza riscontro – Romanzo di figure è che la parola e l’immagine non si illustrano a vicenda, ma partecipano attivamente alla costruzione dell’opera. […] La parola – si può dire – fissa l’immagine come un reagente chimico, producendo un terzo elemento indefinibile […]: il loro scopo è creativo, vitale. […]
L’immagine è inconsapevole; la parola la rende consapevole e la riscatta, assecondandola senza la più lieve sovrapposizione. Questo senso di consapevolezza che acquistano le immagini al di là della loro timida, troppo esteriore natura, forse è il tratto più tipico di Romanzo di figure; da esso, mi pare, scaturisce il meccanismo poetico. […]
Così nel flusso indistinto della visione prende corpo uno stile meditato, una forma universale […]: memorie di stili e di luoghi, simboli propiziatori, catene di somiglianze e antiche iconografie vengono regalate a un frammento innocente di vita (può essere anche la nostra), che in tal modo si iscrive in un ordine più vasto. Non solo queste immagini, ma tutto ciò che è rivissuto artisticamente è salvo per sempre, perché ha acquisito un significato.
Francesco Porzio
Su «Romanzo di figure», in A. Ria (a cura di),
Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze, Mondadori, Milano 1996, pp. 342-44