Lettura di un’immagine

«Lettura», «romanzo», «immagine», «figura»: queste parole, associate, rimandano al senso dell’innovazione che Lalla Romano opera su un genere misto: il libro fotografico. L’originalità nasce dal rovesciamento del senso comune per cui le «parole» illustrano, mentre le «immagini» narrano. Un ulteriore scambio semantico fra il linguaggio della fotografia e quello della pittura dà valore d’arte alle «figure», cioè i ritratti, che il padre della scrittrice, Roberto Romano, aveva fissato sulle sue lastre. Ogni scatto è accompagnato da brevi annotazioni che le commentano; mentre in Ritorno a Ponte Stura (in realtà Demonte, suo paese natale) le fotografie sono riunite in gruppi preceduti da un unico testo che ne illumina il senso.

 

Edizioni

  • Lettura di un’immagine, Einaudi («Saggi»), Torino 1975.
  • Romanzo di figure. Lettura di un'immagine, Einaudi, Torino 1986.
  • Nuovo romanzo di figure, Appendice di Antonio Ria, Einaudi, Torino 1997.
  • Ritorno a Ponte Stura, a cura di Antonio Ria, Appendice di Roberto Cassanelli, Einaudi, Torino 2000.
  • La treccia di Tatiana. Fotografie di Antonio Ria, Einaudi («Nuovi Coralli»), Torino 1986.

 

Copertina Lettura di un'immagineLettura di un’immagine, Fotografie di Roberto Romano, Einaudi, 1975

In questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione.

I brevi appunti dovrebbero servire a fermare un poco l’attenzione (di solito si guardano le fotografie fuggevolmente), in quanto suggeriscono prospettive di lettura. Non vengono fornite notizie, né raccontate storie: in presenza delle fotografie sarebbero indiscrete e fuorvianti. La lettura non deve avvenire su questo piano.

Informazioni utili (se non indispensabili) sono le seguenti: tutte le fotografie qui raccolte sono state fatte dalla stessa persona (mio padre) e quasi tutte nello stesso luogo (il mio paese natale) nel giro di una decina d’anni: tra il 1904, anno del matrimonio dei miei genitori, e il 1914, anno fatale.

(Lalla Romano, da Premessa a Lettura di un’immagine, p. IX)

 

Cacciatori

Incipit

  I cacciatori

 

 – il cacciatore in riposo – la mano sull’arma, sulla preda abbandonata – compostezza: compiacimento tranquillo, ma anche malinconia – il costone è già in ombra – un lucore rivela il muso della lepre, il bordo chiodato dello stivale –

(da Lettura di un’immagine)

 

Lalla bambina

Apertura

  – figura in un interno – emerge plastica e luminosa dall’ombra che occupa la metà dello spazio – alcuni punti dell’immagine si possono leggere come segni di un carattere, forse di un destino: gli occhi, le mani, una ciocca di capelli – gli occhi sono attirati da qualcosa di misterioso, indefinito e lontano: è uno sguardo interiore – l’arco delle sopracciglia esprime stupore – lo sguardo è consapevole di ciò che sarà, o forse già è, perduto… – ma nelle pieghe ampie e ferme del vestito si posa una luce rassicurante – l’intreccio delle mani dice raccoglimento, fiducia – e la virgola dei capelli a lato del viso? sprezzatura, libertà –

(da Nuove romanzo di figure

Antologia della critica

Lettura di un’immagine, Einaudi («Saggi»), 1975:

Immagini amatissime da Lalla Romano, che lei stessa correda di un commento essenziale, altamente lirico, teso a fornire una chiave di lettura individuale e «pathetica» più che universale, in modo da comporre il tutto – le immagini e le parole – in una specie di storia da lanterna magica, di video-tape povero in cui le immagini non sono proiettate e le parole dette dalla membrana di un altoparlante, ma stampate su un oggetto di ben più antica e familiare sodalità: un libro.

Operazione quanto mai interessante e di dignitosissimo risultato: ho detto lirico, e quindi poetico, però aggiungerei di precisa coscienza della condizione dell’uomo e della sua posizione nella storia, in un certo hic et nunc, un complesso di storie con la s piccola che, se si guarda bene, si vedono tutte assieme concorrere a formare il grande flusso della Storia con la S grande, nelle sue anse positive e negative. Non operazione di «revival», quindi – anzi i pericoli di maniera con esse connessi sono sapientemente evitati –, ma operazione di recupero di un certo passato attraverso il cannocchiale di una precisa coscienza storico-poetica.

Mario Biondi
«Corriere del Ticino» [Lugano], 20 dicembre 1975

 

Le fotografie sono molto belle, le immagini hanno il fascino della spontaneità e della semplicità; sono decorose e intense: paesaggi invernali, figure domestiche, quadretti familiari, scene di caccia costituiscono il contenuto delle sequenze. Un’affettuosa commozione accompagna la cura dell’autrice nell’ordinare questo album. Il suo compito è stato solo all’apparenza facile: selezionare e raccogliere in gruppi omogenei le foto, e poi interpretarle. Il commento è secco, ridotto come una didascalia; ma insieme è trepido e partecipe perché persone, cose, paesaggi fanno parte di esperienze infantili o adolescenziali. La pagina scritta che affianca l’immagine non si riduce a scheletrica indicazione di dati: la descrizione avvia a una decifrazione psicologica e a una valutazione «artistica». Il commento è dunque il risultato di un lavoro complesso. Convergono in esso limpidezza descrittiva, giudizio estetico, interpretazione individuale interessata a due distinti fattori: l’aspetto dell’immagine in sé (e perciò viene studiata la posizione dei «personaggi» e il loro rapporto con la natura) e l’ottica di chi fotografa, cioè del padre, che implica annotazioni e puntuali individuazioni della figura paterna; e il padre finisce per costituire il vero «protagonista» di questo particolare scritto della Romano.

Uno scritto che è «saggio» ed è anche «romanzo». Saggio in quanto la scrittrice esibisce il metodo del proprio operare, rivelando sul fondamento di un materiale concreto e messo a disposizione di tutti il sorgere di una evocazione o di una suggestione (per una narratrice di «memoria» quale è la Romano è un po’ come scoprire le proprie carte). Al tempo stesso però il volume non è semplice documento; la personalità della Romano si fa sentire nei richiami colti delle citazioni e delle comparazioni […], nell’ampliamento fantastico degli elementi suggeriti dalla realtà […], nella sottolineatura di alcune vicende o avventure esistenziali che le immagini suggeriscono. L’album è impaginato a somiglianza dei capitoli di un racconto: un racconto che parla di un’epoca, di un costume, di una dignità umana e civile forse irrecuperabili.

Luigi Surdich
«Il Secolo XIX», 23 dicembre 1975

 

L’impressione immediata è che Lalla Romano ci abbia dato, con Lettura di un’immagine, la prova fino ad oggi più completa. […]

Agnizione del passato mediata dall’immagine, una realtà fatta visione: il riscatto del tempo, come usura delle cose, operato attraverso la memoria, liberando i fatti del provvisorio, si risolve in un’operazione critica, poiché l’obiettivo è stato puntato, fuor di metafora, dal padre, e lo scorrere del tempo ha già patito «aggressione», e sia per porsi come punto di partenza a una misura distaccata e razionale. La prosa che concreta tale misura è una prosa «ritmata»: la punteggiatura ne è spia: manca il punto fermo conclusivo, per una «continuità» che ha tregua solo nella successione dei paragrafi in cui il libro è scandito. […]

Una sorta di respiro spaziale si riversa dalla lingua sulle immagini, non a livello delle affermazioni dell’autrice, per altro pungenti e puntuali, ma concreto nell’operazione linguistica, nel ritmo della prosa, in certe sospensioni del vocabolo, in improvvisi indugi musicali e sintattici, che sollecitano spazio profondo e orizzonte lontano. Un’operazione singolare questa interazione di vocabolo e immagine, e tutta immediatamente godibile, con appagamento della vocazione visiva del nostro tempo.

Carla Mazzarello
«Annali della Scuola Normale», VI (1976), serie III, vol. VI, n. 4, pp. 1486-90

 

Il volume di Lalla Romano, Lettura di un’immagine, al fascino delle fotografie, costitutive del testo vero e proprio, unisce una singolare problematica per quanto riguarda la «prospettiva di lettura» aperta dai commenti.

Intanto, le fotografie esibiscono una formidabile – anche se solo virtuale – potenza di discorso; ma sono anche, ovviamente, mute. L’immagine fotografica blocca senza scampo il reale. Anzi si potrebbe dire, con più precisione, che lo occulta, lo maschera come reale nel momento stesso in cui lo propone nella sua evidenza più accecante, più «obiettiva».

Il problema del commento sarà, perciò, quello di riuscire a far parlare il reale, a disoccultarne il discorso sepolto sotto le false evidenze (sotto le false apparenze) dell’obiettività. Ora, per ottenere ciò, il commento non dovrà parlare l’immagine, ridirla, non dovrà, insomma, iterare il discorso dell’evidenza e dell’apparenza; dovrà, invece, prolungare l’immagine, spostare l’apparenza, tradurre l’evidenza in altri tipi di discorso. […]

Il discorso estetico con cui Lalla Romano parla il discorso muto delle immagini, aggiungendo silenzio a silenzio, assolve, nelle intenzioni di chi lo fa, un duplice scopo: da un lato, quello di occultare la violenza di un discorso virtuale, di un discorso taciuto, di cui le immagini sono comunque depositarie (le notizie e le storie sarebbero, infatti, «indiscrete»); dall’altro, quello di esplicitare l’«esteticità» delle immagini, dotando così, nel contempo, l’autore di esse di un  suo proprio discorso, o di uno pseudo-discorso. […]

Il commento dirà ciò che la lettera non dice, o dice solo di sfuggita, o dice di nascosto, o dice esplicitamente ma in forme velate, riparate all’interno dell’interminabile discorso dell’esteticità. Immagini e scrittura parleranno allora la storia e la vita, la povertà e la solitudine, la mancanza di discorso dei personaggi più vistosi e, viceversa, il discorso epico di qualche cacciatore solitario, antico come le origini; parleranno il discorso della malinconia di una straordinaria figura femminile («non poteva sorridere più di così») o il discorso silenzioso della sua distanza e del suo ritegno («lui non le aveva detto di uscire dall’ombra»); parleranno la vigilanza di una bambina o l’immagine della follia, ma quieta, inserita nel coro paesano («si è seduto sul mattone e si è levato il cappello»); parleranno l’esotismo scoperto fuori dalla porta di casa, a Montecarlo, come discorso della seduzione («l’India sognata è presente nel palazzo-fantasma su palafitte»). Infine attiveranno soprattutto due discorsi, che sono il vero discorso del libro: quello dell’inquietudine e dell’affanno – anche dell’ostinazione – di un uomo che attraverso l’occhio dell’obbiettivo cerca inutilmente di avvicinarsi alla donna amata, di ridurla entro il cerchio delle cose su cui esercita il proprio discorso (che è, in realtà, un’assenza di discorso); e quello rappresentato da un occhio infantile che osserva questo affanno e questa ostinazione; e se ne fa depositario: «lui sostiene il gruppo, ma la coscienza è affidata allo sguardo della bambina solitaria, a destra».

Stefano Agosti
«Libri nuovi», VIII (1976), n. 2, p. 3

 

Le fotografie erano bellissime: giochi di grigi, che si perdono nell’ultimo grigio dell’orizzonte, neve più candida di qualsiasi neve reale, neri così tenebrosi come nessun nero lo è mai stato, ombre inesorabili e impenetrabili come tombe; o toni chiari, lieti e leggeri, che tentano di raccogliere tutta la luce di cui è imbevuta la superficie del mondo. Le figure umane – così care al cuore di chi le vide, così dolorose al cuore di chi torna a descriverle – sono immobili, ferme, innaturalmente ferme. Ci sembra ogni volta che il fugace lampo di magnesio le abbia uccise mentre le rappresentava, gettandole nel grembo vasto ed oscuro della morte. Ma quel lampo donò loro una lieve patina d’immortalità, e le conservò teneramente attraverso gli anni. Così, mentre contempliamo le fotografie di questi morti, un atto di magia pare resuscitarle dalle ombre del passato. Ecco, escono fuori dalle lastre di vetro o dai cartoni vecchi di settant’anni, ed abitano nelle nostre stanze o nel lago inquieto delle nostre pupille.

Qualche mese fa, le immagini colte dall’antico fotografo sono ritornate nelle mani della figlia, che le commenta con brevi prose. Il tono distante con cui misura gli spazi, descrive la posizione delle figure e calcola le ombre e le luci, ricorda le abitudini del padre geometra, incaricato di prendere delle rilevazioni sul terreno. Intanto, essa tenta di far coincidere il proprio sguardo con lo sguardo della macchina fotografica, alla quale il padre aveva segretamente affidato il proprio pensiero e il proprio giudizio. Scruta, indaga, cerca di conoscere cosa attraversava la mente di quelle figure umane travolte dal tempo: cosa significava ognuno di quegli istanti, che vivono ancora racchiusi nella loro umile veste di cartone.

 Alla fine della sua ricerca, Lalla Romano ritrova se stessa bambina: solenne, grave, senza sorriso, con la fronte corrugata intorno a un pensiero inesprimibile, con l’occhio vigile e penetrante. Non prova per lei nessuno slancio: non la guarda come di solito guardiamo noi stessi bambini, cercando di capire le lontane origini del nostro io; ma con la remota curiosità dedicata a un passante, che incrocia per caso il nostro cammino. Cosa scruta quella bambina senza sorriso? Le stesse cose che avrebbe raccontato molti anni più tardi con attenzione, circospezione e una minuzia severa? oppure cose infinitamente più grandi e lontane, che nessun adulto riesce a comprendere?

Seguendo il doppio filo di questi sguardi, siamo tentati di proseguire per conto nostro le storie accennate nelle vecchie fotografie.

Pietro Citati
«Corriere della Sera», 4 gennaio 1976

 

Invidiabile libro, veramente: perché crear ordine tra l’iconografia familiare è arcaico richiamo ma anche obbedienza ad un rigore, ad una norma intima. […]

È un documento davvero fraterno, questa Lettura di un’immagine: con passi di estremo garbo offre le stimmate d’un mondo che credeva totalmente nella propria dignità, e si batteva per rinsaldarla. Nello spazio della natura – una natura che anch’essa è «interno», mai luogo estraneo – anime e corpi, abiti e stilizzati gesti sapevano consistere, fiorire. Ad esempio di se stessi, persino. Con gelosia di atteggiamenti, con soave pudore.

La ricerca del tempo non è mai «tempo perduto».

Giovanni Arpino
«La Stampa», 8 gennaio 1976

 

Non so se questo libro sia letteratura. So però che emana una strana sottilissima suggestione, una specie di malia, che si insinua dentro con la forza di tutto ciò che non è detto ma soltanto lasciato intuire, affidato insomma all’immaginazione del lettore-veditore. […]

Che cosa accade al lettore? […] Poco a poco penetra i personaggi, li isola, ne coglie i rapporti, ricava una rete sentimentale, li vede proiettati nel tempo, che gli scorre tra le dita come un affascinante e crudele miracolo, e ha l’impressione d’essere entrato in un segreto, e ne ha disagio, come se avesse profanato qualcosa, e nel medesimo tempo piacere, perché quel segreto è in fondo il segreto della vita, com’è in noi e intorno a noi.

Claudio Marabini
«Il Resto del Carlino», 12 gennaio 1976

 

A guardar bene, le cose risultano ben più complesse e segrete, in virtù di un trucco il cui congegno è altresì svelato dall’autrice («In questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione»), nella direzione sostanziale di una specie di «romanzo per immagini». Un risultato ultimo marcato dal segno di una sommessa raffinatezza, dal gusto civile per un mondo trascorso nella determinatezza del suo tempo, ma fatto rivivere al presente sotto la ipoteca di una composta e sorvegliata commozione. […]

Chi conosce il percorso letterario della Romano sa bene fino a che punto il tema della rievocazione degli affetti attraverso il recupero proustiano di frammenti di memoria, sia stato determinante per la maggior parte dell’esperienza della scrittrice. […] Tuttavia potrebbe sembrare alquanto riduttivo catalogare un’esperienza come Lettura di un’immagine all’interno di un canone, quello appena enunciato, bisognoso piuttosto di una continua verifica.

In un libro come questo non è difficile trovare più di una traccia che ci conduca verso sentieri più intrigati, ad approdi di maggiore complessità psicologica. A questo proposito sarà bene fare attenzione al modo mediante il quale la Romano gestisce l’altro personaggio-protagonista del libro, cioè la bambina, costante interlocutrice della figura del padre. Non è davvero un fatto da riassorbire all’interno della matrice autobiografica, quello per cui sono gli occhi e la fantasia della bambina a guidarci nella decifrazione di buona parte di queste pagine. […]

Una vicenda che tende in modo irresistibile a farsi racconto, a diventare testimonianza psicologica in merito ad un microcosmo sociale storicamente ben individuabile.

Vanni Bramanti
«L’Unità», 22 gennaio 1976

 

Nell’opera di Lalla Romano questo testo rappresenta una ragione segretamente poetica, quasi un filo che, più o meno appariscente, corre per tutti i suoi scritti: la tenacia dello scovare, cioè, nel profondo del conscio, e anche nell’inconscio, per ritrovare le matrici fantastiche, ma legate a paesaggi, figure, atmosfere, di una poetica che le è tutta peculiare. […]

I suoi libri si presentano come racconti in prosa, anche se si tratta sempre di una prosa calibratissima in cui il valore di ogni parola è sentito in funzione della sua qualità poetica. […]

In tale prospettiva penso che vadano letti gran parte dei racconti della Romano: che acquistano d’altronde una particolare illuminazione proprio da questo volume di immagini che in certa guisa compendiano la proposta dell’antefatto, del paesaggio, dell’ambiente, e anche dei personaggi, in tutta la loro misteriosa bellezza. […]

Si può dunque considerare questo libro della Romano, Lettura di un’immagine, un contributo eccezionale per penetrare nel suo intimo mondo fantastico, e comprendere da quali radici si è sviluppato così singolare e forte. Un piccolo mondo antico e segreto lentamente riscoperto e ricreato: anche se gli elementi autobiografici, così evidenti e preponderanti nei suoi scritti, vengono trasfigurati per forza di stile e di intuizione di natura prevalentemente poetica.

Augusta Grosso
«Il Nostro Tempo», 25 gennaio 1976

 

Questa emblematica storia borghese (vissuta tra il 1904 e il 1914, cresciuta e adeguatamente misurata negli anni) in circa 100 fotografie e altrettante didascalie, è un esempio felice e raro di romanzo a due mani, dove un padre artista ha fissato tutta la ricchezza e l’intensità dei riti e degli affetti (dei valori) di una borghesia lontana dal consumismo che doveva sconvolgerla cinquant’anni dopo, e una figlia scrittrice, che non ha perso, con la distanza, l’acutezza acerba ma penetrante di un’infanzia mitica, acutezza che nell’economia generale del libro diventa il filtro più profondo e attendibile per individuare il senso di una vita.

Gina Avogadro
«Il Giorno», 28 gennaio 1976

 

Queste fotografie acquistano uno speciale rilievo dalle parole di commento della scrittrice piemontese.

In altri termini se le avessimo davanti mute, la nostra attenzione sarebbe diversa, certamente più superficiale e distratta. La Romano, intercalandovi il proprio linguaggio poetico, di artista consapevole dei mezzi a sua disposizione e nello stesso tempo di donna che vuole e sa riesumare il tempo felice, l’«età dell’innocenza», non fa soltanto un’opera di incorniciatura: le punteggia, le interpreta, in qualche modo le ricostruisce, sottraendole al tempo e all’oblio. Le parole con cui accompagna le immagini sono spesso veri e propri poemetti in prosa, in cui ella profonde grazia e commozione, sottoponendo quest’ultima a un sapiente rigore stilistico, a una sobrietà di dizione che la regola ed esclude scatti incontrollati. Sono parole che non si possono staccare dalle foto: ognuna di esse fa parte dell’intercalare sommesso, e necessario.

Libro quieto e fascinoso che rende, oltre al ritratto di una famiglia, quello di un’epoca filtrata attraverso un occhio garbato e personale, Lettura di un’immagine si raccomanda come testo schiettamente poetico, spoglio di infingimenti, teso a ricomporre con robustezza nativa il dono di un’età perduta.

 Roberto Cantini
«Epoca», 28 gennaio 1976

 

Il libro assume un carattere di sperimentazione: […] l’aggiunta di un ribaltamento della sintassi espressiva del racconto fotografico, deprivato di tutta la sua immediatezza. La Romano gioca tutte le sue carte sulla memoria, un’avventura realizzata nella direzione opposta alla ricerca proustiana, nel senso che qui il privilegio dell’immagine sostituisce la simbologia della parola alla quale lo scrittore francese assegnava un gigantesco potenziale evocativo: «Le immagini, col loro pathos, sono viste al presente», afferma la scrittrice, e allora appare chiaro come il loro potere evocativo riesce a trovare un diverso indice di drammaticità, nella misura stessa con cui un certo compiacimento sensuale e decadente accendeva invece la rimozione proustiana.

Ecco perché al commento formale-psicologico, la Romano ha sostituito a sua volta il confronto diretto che ha come termine di giudizio e di comparazione la Storia che sottrae l’aneddoto alla sua fuggevole contemporaneità per innestarlo nella dinamica del proprio tempo, e quindi in una significazione emblematica.

 Walter Mauro
«Messaggero Veneto», 7 febbraio 1976

 

Nella femminile, inquieta attenzione alla verità dei rapporti umani sta la poesia della Romano. Ciò fa di lei «la» nostra scrittrice; anche se il suo discorso è così vicino alla vita che può far credere a «poca» letteratura. Ma, come sapeva Leopardi, spontaneità e naturalezza sono «le figlie dell’arte sola, quelle che non si conseguono mai se non collo studio, le più difficili ad acquistarne l’abito, le ultime che si conseguiscano…». Non è tanto la verità dei ricordi che conta, quanto la verità della voce: e la Romano riesce tanto meglio quanto più si sa distendere, un po’ nascosta ma libera, con la sua sensibilità e intelligenza, al centro del suo discorso: proprio come la piccola Romano che lei stessa presenta in queste fotografie: incantevole bambina incantata dal mistero della vita, con gli occhi sgranati sul padre fotografo, e fra le mani un abbecedario, preannuncio del futuro mestiere o destino.

 Vittorio Saltini
«L’Espresso», 8 febbraio 1976

 

Lo stile spesso nominale, asciutto ma con una sua carica misuratissima di vibrazioni e risposte interiori, bene definisce la posizione della Romano: una sorta di atteggiamento critico, a prima vista, sicuro nel suo linguaggio didascalico, nel dominio sul racconto delle immagini e, al contempo, un rovello, un assillo, l’angoscia dei giorni perduti.

Giuseppe Amoroso
«Gazzetta del Sud», 10 febbraio 1976

 

Notevole sul piano professionale, l’album lo diventa ancora di più per il commento della Romano. Dire commento è dire poco, perché le osservazioni che accompagnano ogni immagine rappresentano a nostro parere un tentativo di lettura (l’autrice dice di illustrazione) su più piani: quello della pietà filiale, anzitutto; in secondo luogo, quello di un’esperienza diretta nel settore figurativo (gli esordi della Romano, come si sa, avvennero nel campo della critica d’arte), da ultimo, il piano di una recherche di anni, paesaggi, visi perduti. E quest’ultimo è certamente il piano che sta a cuore al lettore comune perché, suggestionato dall’elegantissimo testo, egli ha qui l’impressione di attingere direttamente e contemporaneamente alle radici della vita e dell’opera di Lalla Romano.

 antonia mazza
«Letture», XXXI (1976), quad. 325, pp. 202-3

 

Se l’essenza del «romanzo fotografico» che Lalla Romano ci offre è proprio in quelle immagini che, per le virtù proprie della penna quando è fluida, si trasformano in parole, data la descrizione acconcia, tuttavia il vero senso del libro è nella spiegazione psicologica del testo figurato: nella comprensione cioè intima, pur senza fronzoli sentimentali, delle persone immortalate. E per la sapienza quindi con cui la scrittrice traduce ogni istante precedente e successivo quel fatto istantaneo ogni piega o ombra delle foglie, ogni gesto sommario o puntuale degli interpreti familiari, noi l’abbiamo apprezzata al pari di un poeta. Perché in Lettura di un’immagine, il segno, la parola, diventa verso poetico e insomma poesia, anche se scabra, essenziale, filtrata, pur sempre importante e piena.

Lucia Marsili
«Momento Sera», 9 marzo 1976

 

Si prova un senso di ammirazione e di invidia a sfogliare questo libro di fotografie che Lalla Romano dedica al ricordo dei suoi. Di ammirazione perché le fotografie sono state scelte e commentate con sapienza che salta agli occhi, per quanto discreta; di invidia, per il coraggio, l’intrepidezza che una simile operazione richiede. […]

Richiede il cuore fermo di cui solo una donna è capace: un uomo arretrerebbe prima di essere arrivato alla fine, angosciato dal fruscio di foglie secche che esce dalle immagini probabilmente ingiallite del padre o della madre giovani, che sono state le sue radici e stanno diventando i suoi rami.

Lalla Romano affronta con serena compostezza la sua operazione di incantamento, mette persino un pizzico di bravura nel preparare le didascalie del testo (le fotografie) a fronte. […]

Così l’album di famiglia si trasforma in romanzo non scritto, solamente suggerito, con affettuosa partecipazione ma anche con discrezione assoluta: non con il piglio del negromante che interroga i morti, ma del narratore che osserva i propri personaggi meditando sul loro destino. Il libro di un artista che svela il proprio segreto, in fondo. Così si procede nel creare immagini che vengono dal nulla, per poi disporle, tassello dopo tassello, nella storia che si è predisposta per loro, e che più che una serie di eventi dovrà essere una melodia musicale, di cui le note saranno appunto le fotografie scattate da una macchina da presa immaginaria.

L’incantesimo di questa Lettura di un’immagine è forse anche in questa trasfigurazione delle cose solamente reali in una cosa vera.

Luigi Baccolo
«Gazzetta del Popolo», 11 marzo 1976