Le lune di Hvar
Edizioni
Prima edizione: Einaudi («Supercoralli»), Torino 1991.
Successive edizioni Einaudi: in Diario di Grecia, Le lune di Hvar e altri racconti di viaggio, a cura di Antonio Ria, «Einaudi Tascabili», Torino 2003, pp. 61-160.
Altre edizioni: in Opere, a cura di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1992, vol. II, pp. 1207-303.
Titolo
Le lune, ora inquietanti e quasi paurose («un disco color vino, torbido»), ora epifaniche e dolci («La luna dietro un mandorlo. È violenza, ma dolcissima») scandiscono gli approdi e le partenze dall’isola dalmata di Hvar, meta di viaggi interiori più che turistici. Ogni luna rappresenta un’estate, un’esperienza vissuta non su una spiaggia o uno scoglio, ma su «una panchina estrema» da cui guardare gli oggetti, i luoghi, le forme e ascoltare le sensazioni che comunicano.
Argomento
Un filo poetico lega due personaggi diversi per età, ma uniti da un sottile stato di grazia: l’io narrante, scrittrice famosa, montanara irriducibile e con molti anni più dell’amico («Tra i miei anni e quelli di Antonio c’è un rapporto di multipli»), e Antonio, giovane fotografo, compagno devoto, ma anelante al mare, che ama appassionatamente. Quattro vacanze, quattro estati illuminate dalla luna, registrate in un diario particolarissimo, fatto di sensazioni, impressioni pittoriche, sospeso fra poesia e prosa, frammenti e forme delineate.
Incipit
Prima luna
– Ti piacerà, sono sicuro – dice Antonio.
– A me non piace il mare d’estate, i bagnanti, le abbronzature. A me il mare piace soltanto guardarlo quando non c’è nessuno.
– È bellissimo, vedrai.
– Ma è la gente che detesto.
– Là è diverso.
– Perché diverso?
Antologia della critica
Questo libro di Lalla Romano – Le lune di Hvar – è difficilmente collocabile in un genere letterario. Ad esempio l’etichetta «Appunti di viaggio» gli sta stretta anche perché la vacanza, scandita in quattro capitoli-anni, avviene sempre nella stessa isola della Dalmazia (Hvar). Com’è nato questo libro molto singolare? La Romano (una delle poche nostre grandi scrittrici) mi ha raccontato di aver trascritto a Milano, senza minimamente rielaborarli, anzi lasciandoli «tali e quali», appunti scritti di getto durante quattro soggiorni a Hvar […]. Li batteva a macchina distrattamente; solo alla fine, rileggendoli, ha visto che il libro si era fatto da sé (gli appunti rivelavano una sorprendente unità: «erano già il testo»). Con Le lune di Hvar la scrittrice è consapevole di aver «sfidato tutte le convenzioni». Questo libro – mi ha infatti detto – «rappresenta la quintessenza della mia libertà rispetto allo stile e del mio insieme pudico e appassionato amore per la vita». […]
Un breve libro che è una miracolosa, poetica riuscita.
Grazia Cherchi
«Wimbledon», II (1991), n. 18, p. 38
Insolito libro fatto di niente e tuttavia di straordinaria intensità poetica.
L’esile filo del racconto percorre quattro estati di vacanza trascorse in Dalmazia da una stranissima coppia: lei molto avanti negli anni, lui, Antonio, un intellettuale (in primo luogo fotografo) giovane, agile, «sicuro come un uccello», dedito con naturale eleganza al «perfezionismo fisico»; composizione alterna di mistero e limpidezza. […] Ma si sente che stanno davvero bene insieme: l’affetto di lei ha ombrature di rimorso che la ripagano della propria ruvidezza, quello di lui è protettivo, ambiguamente sospeso tra il ruolo di figlio e quello di madre. Li unisce l’amore per la natura, l’arte e la musica, e una sorta di magica libertà e connivenza garantite da qualche dio segreto. […]
Si tratta di schegge, frammenti, rapidi appunti, che non hanno peraltro niente di impressionistico, ma sono incisi con grande nettezza.
Geno Pampaloni
«Il Giornale», 6 ottobre 1991
Sono ormai quarant’anni che Lalla Romano in maniera personalissima rifugge dalla narrativa romanzesca ma anche dalla memorialistica tradizionale. Riattualizzata di libro in libro, e certo dominata con assoluta maestria, la sua è una forma prosastica di assai ardua definizione. È – diciamo – una forma di autobiografismo fortemente relazionale, che alla linearità distesa di un’edificazione del protagonista preferisce una tecnica associativa a sfondo allusivo e intuitivo. […] Respinto il tutto-tondo della tradizione ottocentesca, ma anche l’artificiale psicologismo dell’avanguardia primonovecentesca, la Romano ha sempre dato luogo al personaggio come enigma, attorno a cui danzare con leggerezza epifanica. […]
Grandissimo è il suo sforzo di sublimare, ma a risultarne è pur sempre un contrastato bisogno metafisico senza risolutivo abbandono trascendente. L’insistenza ossessiva dello sguardo, le immagini che si accumulano nella loro istantaneità definitiva, persino i cibi minuziosamente descritti e gustati: tutto testimonia di una voluttà di pienezza fatalmente insoddisfatta. A fungere da estremo conforto salvifico si presenta la bellezza, trama sgargiante e romanticamente accesa di forme e di colori; tra fughe di luce e vastità marine in tempesta. [...].
Ma nell’avidità ansiosa di trattenere («rimpiangerò ogni occhiata perduta»), la linea stilistica va in pezzi. Quell’impeccabilità ritmica di cui ancora la sezione «prima luna» recava memoria definitivamente si sfalda. Restano frasi assolute, senza nemmeno un soggetto enunciatore che ne assuma la responsabilità, perso com’è nell’insopprimibile voglia di fondersi nel tutto e rifarsi natura. La sublimazione e l’estasi, per quanto iterate, non sembrano sufficienti. Mentre dal margine della coscienza già si avanzano dubbi che mettono a rischio l’intero ordito contemplativo del testo: «La bellezza stanca? (Ammirare stanca)»; o ancora, in prossimità della conclusione, «mia noia per la bellezza?».
Bruno Pischedda
«L’Unità / Libri», 7 ottobre 1991
Lalla Romano ha dentro ben altre strutture morali e una ben diversa attenzione alle cose, agli uomini e alla vita. […]
Così dal nulla, dagli spazi bianchi che perforano la singolare scrittura di questa pagina, dai piccoli brani ricavati senza interpunzione come a indicare la loro sospensione nel bianco o nel vuoto del vivere, ecco uscire quella che potrebbe anche apparire come la trama di un rapporto uomo-donna, uomo giovane e donna molto anziana (quasi una nonna?), coi soprassalti, gli scatti, le ombre, le gioie, le felicità, le lacrime tipici di una coppia […].
[…] Posto che la Romano compia un viaggio nella realtà, c’è un punto solo in cui ella può sostare, equidistante tra il detto e il non detto, il suggerito e l’espresso, il naturalismo vecchia maniera, caro all’Ottocento, e un simbolismo appena intravvisto, usato invece come strumento di rarefazione narrativa. […] Uno spartito, una suonata magari di un pronipote di Debussy alleggerito, se possibile, e raccolto intorno a un saldo motivo appena evocato: motivo non di cuori crepuscolari ma attivi, legati alla vita, anche duri in essa e vogliosi di prenderla nella sua quasi invincibile ambiguità.
Claudio Marabini
27 ottobre 1991
La Romano dimostra una capacità unica nel cogliere il segreto dei colori, il mistero delle cose, senza mai alterare il quadro della realtà. Non c’è speculazione di ordine sentimentale e tuttavia non mancano le allusioni, certi minimi particolari che rientrano nel quadro del sentimento. Non basta, quello che avrebbe potuto diventare una storia di eccezione (si pensi a Colette, alla stessa Yourcenar) è stato risolto e depurato con una leggerezza incredibile. E qui sta il dato dell’importanza del libro che, molte volte, fa pensare al Valéry fulminante dei quaderni segreti o al Leiris delle ragioni umane. Tutto sta nel tocco rapido e pieno […].
Questo testo della grande maturità artistica della Romano può essere visto come una sorta di ricapitolazione per essenze di tutto il suo lavoro.
Carlo Bo
«Gente», 31 ottobre 1991
La natura di questa prosa, che poco o nulla concede alla narrazione e alla descrizione, consente all’autrice di potenziare una delle caratteristiche che più le sono state riconosciute dalla critica e che molto richiamano la sua produzione lirica: la capacità di comunicare intensamente attraverso le allusioni, i rapidi accenni, le pause, i silenzi, gli spazi bianchi […].
Questo stile rispecchia fedelmente la personalità del narratore protagonista e la singolarità del viaggio, nato dalla volontà e dalla dedizione del compagno.
Accade così che, via via, la narratrice, quasi mettendo in ombra o castigando se stessa, lasci emergere in piena luce la figura gentile e tenera di A., indifeso ma combattivo, affascinante nei suoi entusiasmi, negli squarci che si aprono inavvertitamente sulla sua vita passata, nella sua capacità di godere la bellezza ovunque si trovi […], nella sua paziente dedizione derivante da naturale disposizione d’animo. Per questo, la forza evocativa dei dialoghi, registrati nella loro essenzialità, risulta esemplare.
Gennaro Barbarisi
«Corriere del Ticino», 9 novembre 1991
Il presente storico così immediato ricorda certe splendide pagine della scrittrice francese Margherite Duras, fatte di notazioni marginali, di piccoli incantesimi che scattano all’improvviso.
In realtà Lalla Romano conosce l’arte delicata e preziosa del togliere, e vi si affida, e vi si affida pienamente, lasciando intuire anziché illustrare, offrendoci quasi con pudore i suoi taccuini. Del resto lei stessa lo ha confessato: «Io detesto dire troppo, ma quello che resta è rigorosamente vero: voglio dire limpido, non logico. Le parole devono essere poche, tra spazi e silenzi: così vivono».
Carlo Castellaneta
«Oggi», 20 novembre 1991
La Romano […] usa una lingua che si impone nell’attuale panorama letterario: denotativa, minuziosa e, nello stesso tempo, luminosa ed evocativa. Il particolare cromatismo di questa scrittrice, al quale non è estranea la lontana esperienza pittorica con Casorati, non è mai esercizio calligrafico, prezioso e virtuosistico; però è qualcosa che sembra implicare anche una freddezza. […]
Filippo la Porta
«Il manifesto», 29 novembre 1991 (ora in Id., La nuova narrativa italiana.
Travestimenti e stili di fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 129-31)
Questo bloc-notes di «memoria immediata» per una scrittrice come la Romano che della memoria ha intessuto tutti i suoi romanzi […] diventa una sorta di laboratorio, di atelier all’aperto della sua scrittura, del modo di costruire il romanzo. […] Così, queste Lune di Hvar acquistano l’ambiguità affascinante di un libro ancora non scritto del tutto, ancora del tutto non cristallizzato nella sua struttura. Come un romanzo che, si intravede, avrà una sua struttura a chiocciola, a spirale, che si formerà ripetendosi, ritornando sugli stessi luoghi, raccontando nuovamente momenti vissuti. […] E Le lune di Hvar diventano un romanzo di esistenze, tenero e feroce. Il romanzo di un incontro fra una donna dai capelli bianchi e un giovane, uniti da un affetto complicato e profondo.
Nico Orengo
«La Stampa / Tuttolibri», 11 gennaio 1992
Le lune di Hvar offre un diario frammentario, fatto di scabre notazioni, di quattro vacanze consecutive (dall’87 al ’90) passate con Antonio Ria nell’isola jugoslava di Hvar: qui i paesaggi, gli incontri, le situazioni della vacanza, assumono un aspetto singolarmente straniato, tra ritorni e sorprendenti riconoscimenti di immagini già note, lampi e rivelazioni di inattesa bellezza, indecifrabili annunci di qualcosa che sembra minacciare ogni consistenza della realtà. In questo diario sembra quasi di sentire la trepida attesa di quelle rovine che avrebbero poi sconvolto quella parte d’Europa:cosi esso sembra suggerirci chi in tutta l’opera di Lalla Romano, sotto la tenace e ferma ricostruzione di situazioni personali e familiari, si dia anche un segreto affacciarsi sull’abisso che minaccia i fragili equilibri del nostro mondo, un invito a non precipitare fino in fondo in quell’abisso, a conservare almeno gli essenziali orizzonti civili che la civiltà moderna ha comunque costruito, a rispettare la vita nella sua più fragile e difficile concretezza.
Giulio Ferroni
Postfazione a L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato,
Einaudi Tascabili, Torino 1994, pp. 214-15
Del traliccio di sensazioni che sorregge la formulazione del diario, i nodi costituiti dalle sensazioni visive rappresentano dunque il piano di superficie del testo; quelli costituiti dalle sensazioni del gusto, e dai significanti d’oggetto che le manifestano, ne rappresentano invece il piano profondo: ancorato ad un testo non detto, non manifestato, o manifestato solo per sostituzioni e spostamenti (i significanti di cui sopra). […] Si potrà avanzare […] la seguente precisazione […]: non scrittura del frammento bensì scrittura del dettaglio, il quale, per le abrasioni circostanti, assume funzioni totalizzanti. Il reale non può essere còlto nella sua totalità, ma solo nei dettagli che sopravvivono alla sua cancellazione, i soli in cui si sia rifugiata la «verità» che concerne il Soggetto nella sua relazione con gli oggetti e le figure del mondo […].
I significanti d’oggetto delle Lune di Hvar designano il luogo profondo della pulsione affettiva, improntando l’intero testo – dai luoghi più neutri o più scopertamente banali ai luoghi più espliciti del discorso sentimentale (generalmente i dialoghi) – della penombra, o dell’ombra, di quella profondità.
stefano agosti
Il testo delle sensazioni: «Le lune di Hvar», in A. Ria (a cura di), Intorno a Lalla Romano.
Saggi critici e testimonianze, Mondadori, Milano 1996, pp. 92-100
Nella «Terza» e «Quarta luna»] La stessa scrittura della Romano si modifica impercettibilmente fra il racconto e il diario, affidandosi più decisamente al frammento lirico o visivo di figura o paesaggio, al lampo o al flash, a cui in certi casi parrebbe solo mancare la scansione metrica dei versi per ritrovare le origini poetiche della Romano di Fiore, dei primi anni Quaranta.
È come se, alla fine, la narrazione della Romano avesse accettato la mobilità di un suo svolgimento in tutte le direzioni: in orizzontale e in verticale, anche in diagonale fra comicità e dramma. Come nel quasi terminale racconto di incomprensioni inspiegate e inspiegabili fra i due, in cui nulla quasi è detto, ma tutto è fatto sicuramente vibrare.
Marco Forti
«Le lune di Hvar»: memoria, racconto, epifanie, ivi, pp. 107-12
Erosione e incompiutezza si accentuano con Le lune di Hvar, allargano l’alone del non detto. Un tratto, un tono: e le cose e gli uomini prendono rilievo. Le notti, i cieli, le lune vibrano di una segreta pietà sotto uno sguardo apparentemente impassibile. E i sogni? I sogni scavano nella direzione di un eros aperto alla morte. Siamo ormai veramente all’essenziale, all’intimo risultato di una narrazione estrema.
Sullo sfondo si affaccia l’ultimo Cézanne, il suo lirismo della durata nel rarefatto ordine mentale. Qua e là un frantume, una scheggia alla Giacometti irruvidisce la superficie. Ma un che di albale si accompagna al canto delle rovine.
Francesco Biamonti
La roccia e l’aria, ivi, pp. 228-29