Nei mari estremi

Copertina Nei mari estremiEdizioni

Prima edizione: Mondadori («Scrittori italiani e stranieri»), Milano 1987.

Nuova edizione: Einaudi («Supercoralli»), Presentazione dell’autrice, Torino 1996.

Successive edizioni: in Opere, a cura di Cesare Segre, con allegato Minima mortalia, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1992, vol. II, pp. 1031-1206; Oscar Mondadori, Postfazione dell’autrice, Milano 1994; Mondadori/De Agostini, Novara 1994; Einaudi Tascabili, a cura di Antonio Ria, Premessa dell’autrice e Postfazione di Sergio Givone, Torino 2000.

Traduzione: Tout au bout de la mer, traduzione e Prefazione di Jacqueline Risset, Hachette Littératures, Parigi 1998.

 

Premi

Premio Grinzane Cavour, Torino 1988.

  

Titolo

Desunto da una novella di Anderson, il titolo fa riferimento a una citazione  di un versetto biblico, tratta dal salmo 138, che un giovane marinaio, durante una spedizione al Polo Nord, al confine del mondo conosciuto, legge in una notte terribile. In condizioni al limite dell’impossibile, in una capanna di neve nel gelo artico, la lettura del testo sacro fa sentire al protagonista del racconto danese che «Dio era con lui… pur nei mari estremi».

L’argomento

Lalla Romano ripercorre nella prima parte del romanzo i momenti salienti della vita in comune con Innocenzo Monti, suo fidanzato e poi marito, fino – seconda parte – alla drammatica scoperta della malattia che lo porterà alla morte, descritta – a tratti – con toni aspri e realistici.

Lalla Romano così motiva la decisione di comporre il romanzo, in un’intervista a Nico Orengo su «La Stampa» del 6 giugno 1987:

 

Non avevo mai pensato di scrivere della vita o della morte di mio marito. Ero tornata, per sfida, in uno dei posti dove andavamo insieme. Era in montagna, c’era un prato. Me ne stavo lì, leggevo, scrivevo brevi aforismi. Ciò che scrivevo su questi foglietti erano pensieri, frammenti di episodi; ma diversamente da altri miei libri non c’era continuità, non avevo bisogno di numerare le pagine. C’era, a tenerli insieme, una struttura musicale, una variazione continua su due temi, l’amore e la morte, che sembrano improponibili, troppo decadenti letterariamente. Ma era la nostra vita, la sua morte. E quei foglietti che senza ordine si affastellavano ripercorrevano, in variazioni continue, quei temi.

Incipit 

     Era stata Silvia – l’aveva scoperto prima di me – a dirmi: – Guarda le sue mani mentre parla.

     Lui era in piedi, le gambe un po’ divaricate (con gli scarponi, eravamo in montagna); raccontava, tenendo una mano sul petto, l’altra levata. Le sue mani erano grandi e lunghe, le dita unite, distese; e il gesto quasi ieratico. Magari il racconto era per ridere, una dichiarazione del tipo: – Le mie sorelle sono due rape.

     Per i nostri gusti di allora – miei e di Silvia – quella stilizzazione del gesto e delle mani, chiaramente spontanea, era attraente, emozionante. E lui subito molto diverso dai soliti compagni di gita, così poco interessanti.

Antologia della critica

L’equazione indicata da Lalla Romano mi sembra, a suo modo, perfetta: «mari estremi» come figura di momenti estremi […]. Morire è allontanarsi: e nulla più della metafora proposta dalla scrittrice rende evidente il senso di un viaggio infinito. […]

Si va dall’amore alla morte, cioè dall’uno all’altro dei due temi fondamentali della vita, e il romanzo è una serie di brevi, intrecciate «variazioni» intorno a questi temi.

Restiamo nell’ambito del linguaggio musicale, così caro, per cultura e predilezione, alla scrittrice. Le «variazioni» sono veramente quelle che s’incontrano in una composizione: melodiche, ritmiche, armoniche, timbriche. Lo stile, pur nella sua organica compostezza, si adegua come la corda di uno strumento. E il suono delle pagine sa essere struggente e ilare, festoso e desolato, attutito dalla sordina dei più segreti sentimenti, velato e sommerso dal filo di sabbia della nostalgia. […]

«Mari estremi», momenti estremi. […] Dello stregato simbolo che ispira il romanzo, rimane soltanto l’aria rarefatta dei grandi silenzi.

 

giulio nascimbeni

«Corriere della Sera», 9 luglio 1987

 

 

Nei mari estremi è titolo che non sarebbe dispiaciuto a Kafka. Esprime una realtà e propone una metafora, è spietato. […]

Titolo preciso e difficile per un libro difficile, cui la definizione di romanzo calza larga o va stretta. Un’opera che respinge definizioni, chiarimenti, richiami […]. Quello che importa è il senso dell’attributo «estremi». Mari estremi sono zona di morte, paesaggio della morte: non un tratto arido, sassoso, lapideo come i moderni di solito lo configurano, ma equoreo, rombante d’acque o silenzioso nell’accalmìa, quale l’antichità lo rappresenta. L’ultimo lembo, che non consente ritorni: in esso la persona che scrive osserva il compagno di vita allontanarsi, sparire. Il titolo indica che l’addio avviene su una linea estrema per entrambi, riguardante e trapassato.

 

Giorgio Zampa

«Il Giornale», 18 luglio 1987

 

 

Il nuovo libro di Lalla Romano tocca le sue corde migliori, quelle più risicate e meno narrative, e narra da dentro un matrimonio e una famiglia, la vita di un uomo sino alla sua morte. Alla fine, com’è naturale, vince la morte, che non può avere l’ultima parola: e le pagine «estreme» del libro per pulizia e vigore, per verità e umanità, sono ben degne di affiancarsi a quell’Ivan Il’ič che viene citato a un certo punto, e alle grandi pagine che la morte ha regalato alla poesia, da Leopardi a Kafka, da Platone al Tasso. […]

Quando sotto la letteratura la vita mostra il suo vero volto, allora quella cosa che eravamo soliti chiamare poesia assume la forza granitica della materia o della vita stessa. […]

Da un libro come questo è ricavabile un costume, una precisa epoca, una morale, con precise prese di posizione in questioni importanti, come per esempio la religione e la politica. […] La freccia obbligatoria porta i «mari estremi» dove non solo la morte traccia la sua linea ma la poesia, il senso e la funzione della letteratura, indica il suo regno esclusivo.

E a questo punto il libro non solo presenta una vita e un personaggio ma oseremmo dire una funzione umana: una vita nel suo essere, un essere elevato alla sua sola essenza. Divaricato all’estremo, il libro sta fra un realismo minuzioso e quei significati massimi. […] È una divaricazione importante per capire l’originalità della Romano e la sua straordinaria modernità. […]

Il messaggio morale nella sua laica religiosità è limpido ed è molto apprezzabile: ma quel che più conta è il suo essere espresso dalle stesse cose, vero della loro stessa verità.

 

Claudio Marabini

«Il Resto del Carlino», 6 agosto 1987

 

 

Quando Montale diceva che compito della memoria è quello di dimenticare, non giocava al paradosso. Realmente le memoria, in modo salutare e produttivo, usa l’arma delle dimenticanza per tutto ciò che, nel conto della vita, risulta inutile, superficiale, ingombrante, senza significato. L’affermazione montaliana pensiamo convenga, abbia fondamento e valore per il caso di Lalla Romano. […]  

Per la Romano, narratrice proustiana, le persone che hanno avuto vincoli di sangue, rapporti affettivi con lei è necessario diventino personaggi esistenziali, maturati, decantati nel tempo. Soltanto allora, una severa, intatta malinconia e una limpida, stratificata forza evocativa li costruiscono, li assumono e li raccontano dentro e fuori cronaca, negli intrecci che permangono tra sentimenti e pensieri vissuti, tra memoria insorgente e ricreazione, dilatazione della stessa vivente memoria attraverso la scrittura.

 

Renato Bertacchini

«Il Messaggero», 10 agosto 1987

 

 

Nei mari estremi […] ci fa pensare ad una croce appena piantata sul campo di battaglia ancora insanguinato, fra lacere bandiere e uniformi immerse nel fango. Siamo vicini a un personalissimo punto zero. Ci resta nella memoria una frase in cui il mito della perfetta scrittura flaubertiana, a cui la scrittrice si è sempre ispirata, viene piegato nella curva spericolata della rievocazione immediata: «In città, mentre attraversavamo una piazza (secondaria) – tenendoci per la mano! – mi accorsi che da un gruppo famigliare “dabbene” transitante un po’ discosto da noi, arrivavano occhiate oblique, sospettose e gelide. Per quel che me ne importava…». Quanta vita, quanto dolore si concentri, come un vorticoso mulinello, nel punto esclamativo fra trattino e trattino, resterà un segreto inesplicabile.

 

Eraldo Affinati

«Paese Sera», 1 ottobre 1987

 

 

Ci sono libri di donne che passano non visti dalle donne, in quanto movimento, per il solo fatto di non tematizzare esplicitamente la questione della propria identità di «genere». […]

Non saprei spiegare altrimenti perché Lalla Romano passi non vista dalle donne-donne, lei che ha una scrittura assolutamente di donna e solo di sé, donna, ha scritto. Con una limpidezza, a volte un’arroganza che a una donna non è generalmente perdonata. […]

Lalla Romano si esamina e fissa nella scrittura. […]

Non drammatizzando, fermamente scegliendo le parole dal tono lucido e colto: è una scrittura trattenuta per cura della forma, «modo» cui arrivare e sul quale tenere che è per lei, credo, la stessa cosa della ricerca di sé. […]

Sembrerebbe, come sempre quando Lalla Romano scrive, fin troppo semplice: ma è una semplicità rappresa, un poco fredda e, in questo senso, su di sé spietata. […]

Che altro potrebbe averle permesso di scrivere con così quieta lucidità Nei mari estremi? Che sono quelli dell’incontro con la solitudine e la morte.

 

Rossana Rossanda

«Il manifesto», 12 febbraio 1988

 

 

L’autrice ha raggiunto in Nei mari estremi il livello più alto della sua attività narrativa. […] In quanto sapientemente costruito col contributo di una personalissima memoria di eventi, Nei mari estremi è insieme romanzo e diario, dove il personaggio che dice io coincide in tutto e per tutto e in modo scoperto con l’autrice. Ma proprio qui si fa avanti l’originalità del libro, che è a parer nostro principalmente di natura stilistica.

Con una scrittura calcolatissima e insieme limpida, accattivante, dai preziosi risvolti ironici, l’autrice ci introduce, ci guida per mano nell’universo della sua esistenza. […]  Elemento non secondario di suggestione del romanzo è il senso visivo, la forza dello sguardo di Lalla Romano sui luoghi, cose, gesti rievocati. […]  Non si dimentichi che la Romano giovanissima frequentò il mondo della pittura, dipinse lei stessa, e più tardi fece parlare in modo mirabile nei suoi scritti le fotografie. […]

Il romanzo è in fondo un acuto commento alle immagini visive del passato, alle scene della vita conservate come fotografie nella memoria della scrittrice. […]

Richiami visivi brevi, ma intensi. Ammirevole la mancanza assoluta di toni retorici.

 

Maria Corti

Motivazione del Premio Grinzane Cavour, 21 maggio 1988

 

 

La sicurezza con cui Lalla Romano si è fatta un posto primario nella nostra letteratura del secondo Novecento, è direttamente proporzionale alle costanza e alla fedeltà con cui, negli anni e nei decenni, ha perseguito il suo motivo romanzesco in cui, senza cedimenti a mode intellettuali, a facili scorciatoie, ha dato vita e spazio alla sua memoria familiare. […]

Chi ora racconta i quattro lunghissimi mesi della malattia del coniuge, della lotta vana contro la sua agonia e morte, dà voce e forma a una materia che viene anche da molto più lontano di quella scadenza […].

Questo libro è così ammirevole persino quando ci turba. Inappuntabilmente costruito, proprio perché nato dalla naturalezza anche biologica e divagante della vita e della morte: così condivisibile anche quando tocca un limite forse invalicabile, quello dell’agonia di una persona amata e ne mette in mostra anche l’«orrore» e la morte. […]

«Nel vagone-letto lui si metteva sotto e io sopra. Fate così». Non c’è, probabilmente, conclusione più calzante, che riassuma in semplicità e in libertà, il senso la sfida della scrittura di Lalla Romano. L’impossibilità evidente qui e altrove per lei, di organizzare la materia del proprio racconto a livello di un comune intreccio narrativo. Questo quando risulti invece indispensabile alla forma poetica della sua scrittura, la complessità creatrice di una memoria che si muove come una costellazione su diversi piani: dal quasi diario alla quasi riflessione e meditazione, dall’enunciato narrativo in prosa allo strappo in poesia sia esso in prosa o in versi, dall’umanissima e quasi disarmata confidenza alla sfida energica alle convenzioni. Tutto questo in segno di fedeltà estrema, assoluta a sé, al proprio modo di essere, e più, al compagno amatissimo di cui si è voluto qui, per sempre, lasciare testimonianza e memoria.

 

Marco Forti

«Lingua e Letteratura», IV (novembre 1988), n. 11, pp. 126-34

 

 

Contrariamente a quanto solitamente accade per molti scrittori, che considerano i loro versi giovanili una sorta di apprendistato, quasi la poesia, invece della cosa seria che è, fosse la scuola materna della prosa, per Lalla Romano, che esordì come poeta con una raccolta di versi dal titolo Fiore, resterà, quella poetica, la migliore chiave di lettura di tutta l’opera successiva. […]

La poesia iniziale di Fiore […], inseguita sempre nel rigore della parola, nelle suggestioni delle frasi evocative, nel ritmo, dà a questo libro anche la precisione, la leggerezza, la rapidità che Italo Calvino propone allo scrittore del prossimo millennio che voglia ancora dare forma a quanto di per sé non ne ha: l’esistenza.

Alla distruzione di ogni piano umano messa in opera dalla morte e dal destino, opporre il rigore della mente: è questo il lavoro dell’artista che la scrittrice attua nel suo libro. […]

Prima di essere accettata o rifiutata, la morte deve quindi essere inserita nello spirito, mediante la contemplazione.

Tuttavia il libro non parla soltanto di morte. Come in un’opera classica esso le oppone un’intensa storia d’amore, e diventa al di là di ogni confine, un codice insieme artistico e morale. […]

Nessuna frattura fra l’arte e la vita, la storia d’amore […] sarà rivelatrice di uno stile nella vita che si muterà in stile nell’arte. Dalla leggerezza di certi segnali la capacità di trasformare il poco nel moltissimo in cui si celano i significati.

  Bruna dell’Agnese

«Gazzetta di Parma», 17 marzo 1989

 

 

Nei mari estremi come «figura di momenti estremi»: dal significato letterale (il mare, la vita verso l’onda della morte) si passa a uno simbolico, decisivo come definizione di poetica: l’estremo è quello della sincerità, coraggiosa, spietata. Sempre meno allusiva, meno reticente, la scrittrice dice, ora, tutto. Questo il rischio supremo, affrontato e superato. […]

Anche l’arte di narrare mediante flash si è ulteriormente affinata: su una trama fondamentalmente cronologica, s’intrecciano le notazioni per un ritratto del marito, legate a loro volta da un sottilissimo disegno tematico (la gelosia, la pietà, il pudore, l’innocenza, la modestia). Gli elementi addotti sono spesso minimi, ma resi significativi, anzi assoluti, dalla lucidità con cui sono colti e riferiti.

È naturale che in un libro che descrive una corsa verso la morte il tema della morte domini. […]

Ma se la morte è accettata da entrambi gli sposi con grandezza, ciò che caratterizza il libro è l’esasperazione della sincerità prodotta dall’evento. Come se l’irreparabile portasse al di là del rispetto umano, della reticenza, del riserbo, del riguardo. Nulla di tenebroso o di terribile, s’intende, date le persone e il loro stile di vita. Ma è sempre detto ciò che di solito si sorvola o si attenua. […]

Lalla Romano ha sempre cercato una verità che non è quella fattuale, ma qualcosa di più profondo, posto in una zona impervia tra filosofia e religione. Nei mari estremi segna il raggiungimento di questa verità, è un punto di non ritorno, per lei, e il punto più avanzato a cui il lettore, o il critico, sia stato trascinato dai suoi libri.

 

Cesare Segre

Introduzione a L. Romano, Opere,

Mondadori, «I Meridiani», Milano 1991, vol. I, pp. XLIV-XLVI

 

 

Per me si tratta del libro migliore di Lalla, di un capolavoro: una scrittura rovente, da altiforni. Alto il pathos, mai patetico, di una scabra potenza lirica.

Anche qui, e forse in modo particolare, Lalla non ha avuto paura di niente e di nessuno nel ritrarre scene tragicomiche – come tutto quanto lo è – di vita coniugale, fino alla malattia e la morte, nel 1984, del marito Innocenzo. Non tace su nulla – ma sempre badando alla necessità, all’essenzialità – neanche sugli aspetti più intimi del rapporto di coppia, che vengono raccontati con pacata tranquillità, audacia.

 

Grazia Cherchi

«L’Unità», 22 settembre 1994

 

 

In Nei mari estremi, […] in un nesso di adesione fisica e di tensione intellettuale, la Romano sa guardare fino in fondo all’esperienza della morte dell’altro, con una scrittura che sa essere solidale alla sua sofferenza e fedele all’intensità del rapporto con lui, che a una lacerante sincerità associa una suprema riservatezza, come salvando tutta l’irriducibile autenticità di un valore segreto che non si può e non si deve comunicare (e credo che pochi canti d’amore siano all’altezza di questo intenso, disperato e insieme lucidissimo libro sulla morte).

 

Giulio Ferroni

Postfazione a L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato,

 Einaudi Tascabili, Torino 1994, p. 214

 

 

Nel dialogo continuo con gli altri, c’è sempre qualcuno che mette a disposizione il proprio destino per interrogare, in attesa che altri destini facciano la stessa cosa. Nasce così l’«integrità» del racconto, fatta di epifanie modeste, quotidiane […].

In certi libri questa esplorazione diventa qualcosa di assoluto. Pensiamo a Nei mari estremi, che attraverso la concretezza straziante di una situazione diretta, diventa anche una riflessione sulla morte. Così, in Lalla Romano, l’istinto diventa cultura e la cultura istinto, attraverso la presenza immediata del proprio destino che è sempre qualcosa di «selvaggio». […] Attraverso una sorta di legame diretto, quasi perpendicolare con l’esistenza, si rende possibile il movimento semplice e composito del racconto, una temporalità discontinua che ha a che vedere con la nostra situazione moderna, la nostra frammentazione, la perdita di tante cose, che è anche il bisogno di restare in contatto con il fantasma, l’ombra di quelle cose. Così allora si può intendere anche perché il suono sia continuamente mediato dal silenzio e la memoria per riflettere abbia bisogno della solitudine.

In una poesia Lalla Romano parla degli incontri con la verità: «Ad ogni incontro con la verità siamo tratti / fuori alla luce» (Giovane è il tempo). E questa è l’ambizione e, alla fine, la misura che si dà nella sua scrittura e nella sua esperienza.

 

Ezio Raimondi

L’«integrità» di Lalla Romano, in A. Ria (a cura di), Intorno a Lalla Romano.

 Saggi critici e testimonianze, Mondadori, Milano 1996, pp. 28-29

 

 

Nei mari estremi risulta tramato di Leitmotive, «di motivi, di temi» che si smarriscono nella trama della scrittura e che poi riemergono: fra i primi, proprio la metafora acquatica, anzi oceanica, di questo pelago pesante, oscuro, entro cui la morte perennemente ci trascina. […]

L’«estremità» metafisica non ha bisogno di infingimenti retorici, di ipocrisie stilistiche: avanza a lampi, a strappi. […]

Leitmotive musicali, s’era detto, e non vuol essere una forzatura: ci si imbatte in veri motivi metaforici, emblemi annunciati e poi ripresi, esposti, variati, cluster di significati trasversali che ritornano e si cancellano nel tessuto carsico della scrittura, sino a supportare l’onda, la trama sotterranea di questo singolare romanzo-diario, qual è Ne mari estremi. […]

È la pausa, il silenzio ad avere la vera «voce» sulla scena narrativa, a farsi parola e divenire anzi struttura metrica. Non si potrebbe infatti meglio – musicalmente – risolvere questo refrain sordo, sottocutaneo della presenza insistente, psicologica del «mare estremo» della malattia: inghiottiti da un infinito, definitivo silenzio, che dà significanza alla squassata voce interiore, all’urlo soffocato. Nobilmente trattenuto a freno, dalla disciplina stilistica, romanica quasi, della scrittura. […]

Ma è proprio in quei silenzi, in quelle reticenze, in quel rifiuto del facile, consolatorio continuum romanzesco che si condensano le segrete «vitamine» o spezie del discorso lirico, cioè filosofico. La salutare presa d’aria della «sospensione»: che è un’ulteriore allusione acquatica, di galleggiamento, di sostentamento. Sospesi sul catrame acido della sofferenza: ed ecco così il ricorso a quelle «punte» basilari, pietre d’angolo dell’intiera costruzione narrativa, che sorreggono come la gettata aerea di questa estrema, ingegneresca «tenda» di sopravvivenza.

 

Marco Vallora

Lalla Romano o l’arte dell’interpunzione, ivi, pp. 129-35

 

 

Leggendo Nei mari estremi proviamo costantemente la sensazione di una messa a punto lucida, non cinica, anzi piena di pietas; ma di una pietas che ha il coraggio della verità. È un coraggio etico, è un coraggio difficile, richiede immaginazione perché noi siamo sempre sopraffatti dall’idea di quello che dobbiamo pensare, che dobbiamo sentire. In un’opera come Nei mari estremi direi che è semplificato nel modo più forte questo coraggio di vivere sensazioni apparentemente in contrasto. Direi che testimonia una strana disponibilità nei confronti dell’esperienza. Una disponibilità che mi ricorda quella di Svevo.

 

Giuseppe Pontiggia

Sincerità e invenzione, ivi, p. 240

 

 

Nei mari estremi, la prova forse più alta della Romano, la scrittura si discarna nel senso che attinge una rarefazione assoluta, la conclusa cristallina trasparenza di un già sempre essenziale linguaggio. Mai come Nei mari estremi la scrittura è il luogo della memoria: amore e morte. […] Ridotto ad apparizione – scelto un preciso punto di vista – il passato attraversa il pensiero, che diverge, è «altrove». La prosa, che tale situazione registra, ha un procedere rapido, serrato, le pagine brevi, forma di un pensiero balenante, di un’esperienza che non c’è tempo di vivere minutamente. La narrazione – sempre così asciutta nei romanzi della Romano, «contaminata» peraltro da giudizi e riflessioni, fino al romanzo-saggio – qui assume le dimensioni del dramma.

 

 

Carla Mazzarello

Pittura e scrittura: tangenze e divergenze nell’«iter» di Lalla Romano, ivi, pp. 354-55

 

 

Ancora una volta Lalla Romano si scosta dalle facili interpretazioni del suo narrare: narrare autobiografia non è attenersi al pieno della vita, semmai al vuoto della morte. È l’ombra che si racconta, non la luce. Il silenzio, non la voce. Il suono che ne deriva ha tutto il senso del «vero», ma nelle ragioni più profonde è sfuggente, quelle che vivendo non si vedono, a meno che vivere sia contemplare. […]

Come si fa a descrivere la morte? Anzi, la sua attesa? Le parole per dire la separazione, la fine, possono sostituirsi al silenzio, quando la morte diventa presenza? Lalla Romano le ha trovate le parole silenziose. […]

Lo spazio-tempo interiore è ciò che esplora Lalla Romano in questo libro che è riduttivo chiamare romanzo.

Lalla Romano racconta per immagini, anche molto crude, anche molto vere. Non per successioni cronologiche, non per grandi costruzioni coerenti, come è tipico del romanzo. […]

 

Sandra Petrignani

«Diario della settimana», 11 dicembre 1996

 

 

Freschezza, lucidità sobria e sensibile, toccante sincerità nel rendere presente la storia leggera di un vero amore coniugale e di una morte prematura. […] Dice la Romano: io non temo il vissuto. E dice anche: l’arte è astrazione. Ecco, Nei mari estremi mette insieme musicalmente il vissuto e l’arte (astratta) di descriverlo.

 

 Alfredo Giuliani

«La Repubblica», 22 dicembre 1996

 

 

Tutta l’opera di Lalla Romano è contrassegnata dalla dialettica tra natura e cultura, istinto e ragione, oblio e memoria. […]

La scrittura laica e logica della Romano non può non far leggere un’orgogliosa, tenace volontà di superare sgomento, disperazione, abbandono; un’ostinazione a dare ordine al caos, significato al fenomeno; un’ardita indagine e ricerca della verità al di là di ogni velo di emozione e convenzione. Non può non restituire, quella scrittura, un’ardente solidarietà umana, una celata scontrosa pietà. Per quell’imprescindibile bisogno di verità, per la tenace ricerca di ordine, senso, l’esperienza in lei, ogni esperienza, si trasferisce ineluttabilmente nella scrittura, solo regno ove si scioglie ogni conflitto, si rinviene l’unica verità incontestabile. […]

Molti scrittori hanno raccontato la morte. Fra tutti, e i più alti, ricordiamo Tolstoj de La morte di Ivan Il’ič e Verga del Mastro-don Gesualdo. Qui, Nei mari estremi, siamo certo nella zona tolstojana, in cui

Il’ič è citato e messo come in esergo dallo stesso protagonista: «Il primo che ci ha insegnato a morire è stato Tolstoj». Ma la situazione è certo diversa. Qui non c’è incoscienza, attorno a chi sta intraprendendo l’ultimo viaggio, non c’è la crudele indifferenza della vita che continua a scorrere negli ottusi binari delle abitudini e delle forme. Qui il ruolo umano, soccorrevole e consolatorio del mužik Gerasim è assunto dalla deuteragonista, dall’io narrante, che non rappresenta solo la generosa naturalità del giovane contadino, «fresco, pulito, sempre allegro, chiaro», ma è la donna che ha amato quell’uomo morente per tutta la vita, ed è anche la scrittrice che vuole indagare e sapere su quell’atroce mistero, su quell’assenza insopportabile che si fa sempre più imminente. […]

Siamo, in questo romanzo, per l’urgenza del dolore, nella volontà di strappare quel velo di māyā che, secondo Schopenhauer, copre il fenomeno. E siamo certo nella tragedia, in cui si manifesta il grado più alto della volontà umana.

 

Vincenzo Consolo

«Il Messaggero», 30 dicembre 1996;

 poi, col titolo Nei mari estremi con Lalla Romano, in «Belfagor», LII (1997), n. 2, pp. 199- 201

 

 

Nei mari estremi è narrativa, fiction, eppure ogni dettaglio viene dalla memoria precisa dell’autrice e della sua vita. C’è più esperimento letterario in questo libro che nelle decine di opuscoli “giovanilistici” che sfioriscono le nostre librerie. […]

La Romano ci invita a visitare il Passato-Presente con tenerezza, con grazia. È un libro semplice e complesso, che commuove e fa riflettere.

 

Gianni Riotta

«Io donna / Corriere della Sera», 21 giugno 1997

 

 

Si tratta evidentemente, qui, di una poesia vista come essenzialità, come cifra, formula di verità […]. Il linguaggio è semplice, senza ornamenti, spesso come trascurato,di una trascuratezza nata dall’urgenza di dire, di dire tutto. Di qui l’arditezza tranquilla dei racconti. […] È una alleanza unica tra il “tutto da dire” – che si può pensare come la cifra stessa del romanzo nella sua essenza – e il “bianco” della poesia. […] Non si tratta qui di un bianco ludico, di un bianco calligrafico, ma di un tempo di vuoto richiamato dall’esperienza. Tra racconto, poema, riflessione filosofica, la penna disegna blocchi imprevedibili. […] Ogni frase risponde a una esigenza, ogni frase è necessaria – ma transitoria: il movimento di ricerca è in atto: si tratta di andare oltre. […] La memoria è attraversata dall’oblio – lacune, bianchi, esitazioni trascritte («forse», «suppongo», «non so perché»). L’indifferenza alle circostanze, ai rendiconto, alla psicologia, al «troppo umano» è in generale affermata, rivendicata: «Le storie non mi interessano». La ricerca della verità (atteggiamento proustiano) prende la forma (antiproustiana) dell’aforisma, o tende, nei brevi racconti che compongono il mosaico di un libro come questo, verso l’enunciazione minimale, microcosmica. […]

Ciò che porta il testo da un frammento all’altro è una tensione allo stesso tempo incessante e discontinua. Deciframenti parziali, intermittenze. Dolore, tenerezza, ironia. Anche felicità, che lampeggia in brevi illuminazioni. […]

Il movimento essenziale dello sguardo di Lalla Romano può essere descritto così: la prossimità accresce il mistero. Qui questa logica è centrale; più esattamente, trova qui il suo centro. Il suo centro “severo” e silenzioso.

La ricerca della verità prosegue. Si esercita sulla scoperta stupefatta dell’eroe, sullo stravolgimento progressivo della malattia, sul silenzio avvolgente della morte. Scrivere è come non mai, necessario.

 

 Jacqueline Risset

 «Se prendessi le ali dell’aurora», Prefazione a L. Romano, Tour au bout de la mer,

 Hachette Littératures, Paris 1998, pp. 10-13. Trad. ital. di E. Volterrani, in «Il Giannone», La verità della memoria. Omaggio a Lalla Romano (1906.2001), a cura di G. Nuvoli e A. Ria, XI (2011), n. 18, pp. 344-47

 

 

Opera nata dalla morte dell’essere amato. Nei mari estremi era minacciato dall’intensità del soggetto. Ma la sua forma ellittica esclude qualsiasi dispersione: quando in un libro l’intimo si impone in primo piano, è in modo rude, pregnante per la sua crudezza, senza mai reclamare dal lettore di essere un confidente o un complice. Una scontrosità del genere non è semplicemente il riflesso di «asprezze di carattere» che l’autore si riconosce: essa intende salvaguardare il ricordo senza permettergli di trasformarsi in trappola. È una disciplina e una diga, che dà forma a ciò che emerge dal magma della memoria sotto la pressione dell’angoscia e del dolore. Cercando istanti in cui l’accordo amoroso, per Lalla e suo marito, è come trasportato fuori del tempo, il libro trae la sua bellezza dal contrasto che si instaura tra una scrittura apparentemente trascurata, al limite della semplice annotazione, e una struttura molto elaborata. […]

La grande originalità di questo testo – che sarebbe triste leggere come una autobiografia romanzata o come un racconto intimo – è quella di fare coincidere, nel suo autore, la più viva esigenza artistica e una naturale evidenza. Nei mari estremi non esprime il travaglio del lutto: è il lutto in corso, e si propone come un memoriale compatto e però vivificato dalla sua ariosa trasparenza.

 

Bernard Simeone

 «Con una testa umana nell’inumano», «La Quinzaine Littéraire», 1/15 giugno 1998, p. 5:

recensione alla traduzione francese di Nei mari estremi di J. Risset.

 Trad. ital. di E. Volterrani, in «Il Giannone», La verità della memoria.

 Omaggio a Lalla Romano (1906.1911), cit., pp. 351-53

 

 

Il suo stile molto spoglio, minimale, allusivo, è a volte familiare, a volte concettuale. Molto conciso e concentrato, porta il segno della sua formazione filosofica. Mai sentimentale, e pure parla di sentimenti essenziali: materni, filiali, coniugali, amichevoli. Vuol dire che la passione è assente? No. Ed è quello che colpisce: la passione è il desiderio, il coraggio, l’arditezza di una esistenza semplice resa singolare soltanto dall’eccezionale acutezza dell’intelligenza. […]

Lalla Romano […] ha provato che non era necessario vivere avvenimenti spettacolari per saperli metter in scena con intensità. Il romanzo è nello sguardo, non nell’intrigo.

Nei mari estremi […] è probabilmente, con la sua serenità limpida e dolorosa, la migliore introduzione all’universo di una romanziera che rifiuta il romanzo e lo ritrova nel cuore dell’intimità della sua vita.

 

René De Ceccatty

L’amore secondo Lalla, «Le Monde / Livres», 24 luglio 1989: recensione alla traduzione francese

 di Nei mari estremi di J. Risset. Trad. ital. di E.Volterrani, in «Il Giannone»,

(La verità della memoria. Omaggio a Lalla Romano (1906.1911), cit., pp. 349-50: p. 349.

 

 

Entriamo nel cuore di una poetica che ha la sua ragione nella scrittura in quanto tale e che l’autrice non esiterebbe a mettere al bando qualora non appartenesse intrinsecamente al fatto artistico. Principio di questa poetica […] è che solo la vita realmente vissuta merita di essere raccontata. […] Ma c’è anche un corollario. Ed è che raccontare comporta insieme adesione totale alla realtà e sua reinvenzione fantastica. Tant’è vero che «inventata» significa «incantata, vissuta con la fantasia, come mito, favola». Com’è possibile questo? È non solo possibile, ma è un fatto. […]

In Nei mari estremi «l’amore intellettuale della vita» viene a coincidere senza residuo alcuno con «l’amore terreno» e lo porta sul piano di quella «inesplicabile dignità» che non si può spiegare se non per enigmi, ma è tutt’uno con l’apparire del vero, non però il vero che annichila, bensì il vero che salva i fenomeni. […] Si sarebbe quasi tentati di leggere questo alto percorso come se fosse interamente volto alla ricerca (anche nel senso della recherche proustiana, come ha notato Giovanni Raboni) della saldatura della scissione ossia del punto di congiunzione fra amore terreno e amore intellettuale, fra vita vissuta e poesia, fra realtà e conoscenza. Ma forse sarebbe più giusto dire che quel punto non è punto d’arrivo, bensì centro d’irradiazione e anima di tutta l’opera di Lalla Romano.

 

Sergio Givone

Postfazione a L. Romano, Nei mari estremi, Einaudi Tascabili, Torino 2000, pp. 207-12