La penombra che abbiamo attraversato

Copertina La penombra che abbiamo attraversatoEdizioni

Prima edizione: Einaudi («Supercoralli»), Torino 1964.

Successive edizioni Einaudi:

- «Gli struzzi», Nota dell’autrice, Torino 1977; «Supercoralli», Notizia e Nota dell’autrice, Torino 1990; «Einaudi Tascabili», Introduzione dell’autrice, Postfazione di Giulio Ferroni, Torino 1994.

Altre edizioni: Oscar Mondadori, Introduzione di Giansiro Ferrata, Milano 1972; Euroclub, Brescia 1977; in Opere, a cura di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1991, vol. I, pp. 855-1035.

Traduzioni: La Pénombre (Philippe Giraudon), Éditions de la Différence, Parigi 1992; The Penumbra (Siân Williams), Quartet Books Limited, Londra 1998.

  

Premi 

Premio dei Librai milanesi, 1964.

 

Titolo 

«… la pénombre que nous avons traversée» sono parole di Marcel Proust, tratte da Il tempo ritrovato, ultimo volume della Recherche: «Intorno alle verità che siamo riusciti a trovare in noi stessi spira un’aura poetica, una dolcezza e un mistero, i quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato». Lalla Romano, scegliendo questo titolo, rende omaggio all’autore la cui lettura l’aveva folgorata nella sua giovinezza («Divorai Combray con l’angosciosa sensazione che il mio libro l’avesse già scritto Proust»).

 

Argomento

Un viaggio nel paese natale Demonte, qui denominato Ponte Stura, narrato in prima persona e vissuto in equilibrio fra passato e presente, senza compiacimenti o sentimentalismi. Una testimonianza commossa su chi non c’è più, su quello che c’è ancora, su quello che vive per sempre nella memoria e si comprende solo alla luce del poi. Sono ambienti, figure, emozioni che tornano dall’infanzia, «età in sé folgorante, ma ombrosa, oscura per chi la guarda dall’altra sponda, quella della maturità; ma è anche la vita stessa, lo spazio che deve essere riattraversato per ritrovare la tormentosa età, nella quale a nostra insaputa tutto era stato giocato una volta per tutte». Così Italo Calvino presentava il microcosmo narrato dalla scrittrice, che inseriva questo romanzo in una ideale trilogia dell’infanzia: la sua (La penombra), quella del figlio (Maria) e infine del nipote (Inseparabile).

  

Incipit

    La camera, piccola come una cella, era tinta di un giallo feroce. Il letto enorme era di ferro, dipinto a righe parallele, a «imitazione del legno». L’aria era afosa e vi stagnava un odore di fumo cattivo. Due mosche andavano su e giù, come le macchioline che ballano davanti agli occhi malati.

   Mi ero distesa sul letto e cercavo di pensare a cose innocue. Il letto a ogni piccolo movimento gemeva, col suono di un organo.

   Da bambina sentivo criticare gli alberghi. Sentivo dire che c’erano le pulci. A me pareva una specie di privilegio degli alberghi. Nelle case si dava l’allarme se si trovava una pulce, che appena vista spariva come un folletto, e bisognava cercarla abilmente, schiacciarla fra le unghie. Cosa orribile che guardavo con ribrezzo.

   I bambini poveri, le compagne di scuola avevano tanti puntini rossi sulla pelle del collo, che erano morsicature di pulci. Dipendeva dal fatto che dormivano senza lenzuola.

   Anche Murò aveva qualche volta le pulci; ma le pulci dei cani non si attaccavano alle persone.

  

Antologia della critica 

Ciò che costituisce questo tentativo di decifrare il passato è rappresentato dal sottile confronto che la scrittrice fa dei tempi diversi della sua vita. Da una parte c’è tutto un mondo chiuso e che oggi ha la sua unica geografia nell’ambito del cimitero, dall’altra la doppia regola della persona che corre al richiamo del passato e riesce – ciò nonostante – a vedere di che pasta reale era fatto quel passato e di quanto mistero sono carichi gli oggetti più apparentemente facili dei nostri incontri.

 

Carlo Bo

«Corriere della Sera», 21 giugno 1964

 

 

Un «ritorno a casa», s’intende, non è un motivo nuovo nella letteratura: ma qui non si tratta di un romanzo in cui, più o meno sorprendente, conti la trama; conta bensì l’impegno e il tono. L’impegno significa la ragione intima di quell’itinerario: e possiamo rispondere che non è una ragione idillica, non è il solito sfogo del rimpianto, il gioco del diverso, del prima e del poi, ma è l’impegno morale, da cui la scrittrice è condotta a capire quel tempo della penombra, a scoprire gl’inizi della propria vita, i dadi gettati dal proprio destino.

 

Franco Antonicelli

«La Stampa», 1 luglio 1964

 

 

Mi pare che il vero significato, l’originalità del libro della Romano stia nel bisogno di ordinare e di distinguere fra essenza ed esistenza. [...] La bambina, i genitori, le persone d’allora costituiscono l’essenza di quel paese, invincibile sotto l’esistenza che si è continuata ad accumulare negli anni. Anche da ciò viene quel procedere del romanzo a capoversi, quasi a blocchi di realtà-memoria: un uscire e un rientrare continuamente nei due territori della storia e del ricordo. Ma di qui nasce quell’asciuttezza, quella intensità né troppo dolce né troppo dolorosa, che tagliano via nettamente La penombra che abbiamo attraversato dalle tante «storie di memorie infantili» alla fine stucchevoli, e ne fanno un libro insieme coerente e libero, una lettura viva e consolante.

 

Giuliano Gramigna

«Corriere d’Informazione», 1-2 luglio 1964

 

 

Lalla Romano ci viene incontro con un titolo tratto da Proust e ci richiama così, fin dal frontespizio, al suo proposito di ricondurre a una significazione di attualità (anche in senso pratico e determinante) ciò che la nostra prospettiva ottica ci abitua a considerare come passato […]. Forse non ci fu chiaro che quello che avevamo chiamato altra volta, a proposito di Tetto Murato, il decadentismo psicologico e crepuscolare della Romano, stava diventando, proprio allora, un’originale maniera di aggiungere al proprio dono lirico la percezione di un mal di vivere che aveva anche le sue profonde radici nella società. Credo in ogni modo che per ritrovare un risultato di altezza poetica simile a quello de La penombra che abbiamo attraversato, sia necessario risalire alla prima prova narrativa di questa scrittrice: Maria, del ’53. Ma nel libro d’oggi, seppur dissimulata, c’è, come si diceva, una coscienza critica tutta nuova. […]

La penombra è appunto, qui, l’età dell’infanzia: delle scoperte favolose e nebulose, eppure così cariche di futuro e di scelte definitive. Si potrebbe parlare di una corrente prosa di memoria: poi, a guardare meglio, ci si accorge che la Romano ha poco a che fare con un mero compiacimento del ricordo. C’è un motivo lirico persistente, è vero, originato da una ricognizione di quei luoghi, dopo tanto tempo: «... Ponte Stura è dunque immobile... Ma io ne sono consolata. Io penso a quella immutabilità in cui consiste la sua vera esistenza: la mia». C’è anche una sapiente disposizione all’analisi freudiana (le esperienze accolte e quelle rimosse), ma c’è, al di là, una consapevolezza che non solo valica i termini del libro privato o del lessico familiare, ma è addirittura più preziosa dello stesso dono della poesia. In pochi altri è più acutamente avvertito, nell’animo del fanciullo, il costituirsi del sentimento della società, con le sue assurde differenze, i suoi riti, i suoi tabù. Sicché proprio per questo libro di memoria si potrebbe adottare la definizione di romanzo storico: senza tracce di pedagogismo, s’intende, come del resto la poesia non serba tracce di lirismo. Ed eco finalmente un’opera di narrativa che non si esaurisce nelle premesse e nei programmi della scheda di presentazione.

 

Luigi Baldacci

«Epoca», 24 luglio 1964

 

 

Il tempo imperfetto sottolinea una carenza metafisica che consente il romanzo: romanzo che non nasce edonisticamente per nostalgia, ma per colmare la lacuna che l’esistenza coglie, un vuoto della vita.

In tal modo il romanzo si esplica con intenzione ascetica. Riempire il vuoto della vita, il vuoto del passato non significa indugiare su se stessi, sul proprio volto scomparso, ma testimoniare. Una testimonianza che non consente altro che riferimenti precisi, perfettamente ritagliati, una ripulitura della materia della memoria, una essiccazione del moto mosso, incessante e vario che è della cronaca (il moto che si contraddice). L’ascesi sta in questa essiccazione.

 

Enzo Siciliano

«Mondo Operaio», XVII (1964), n. 8-9

 

 

Il libro sa riprendere tutte le fila della propria ragion d’essere, nel breve capitolo conclusivo e senza darci alcuna morale della favola la fa penetrare liberamente in noi risvegliando in pochi tratti la visione e il sentimento di ciò che in esso, nel libro, abbiamo davvero percorso: la traccia di un’esperienza diventata coscienza recuperando con estrema attenzione il pieno significato di quei ricordi. La loro capacità stessa di superare ogni misura privata, di identificarsi con un atto di giustizia (di conoscenza quanto più possibile precisa) verso i propri personaggi e contenuti umani, tutti, in una piccola storia che si fa Storia.

Il romanzo Maria, nel ’53; gli altri libri fino al romanzo del ’61, L’uomo che parlava solo, avevano indicato e confermato nella scrittrice una vocazione di genere raro, estranea a qualunque modulo letterario. Ora, ha ottenuto il successo più difficile: condurre a una vitalità tutta nuova e moderna il suo autentico romanzo della memoria.

 

Giansiro Ferrata

«Rinascita», XXI (1964), n. 29

 

 

La validità artistica del libro consiste nell’assoluta verità dell’esplorazione e nella semplicità della rappresentazione. È questo uno dei libri, non molti oggi, del tutto mondi da affatturazioni letterarie, da ricerche di stile. Questo rispetto per la propria materia (un rispetto che ha un valore morale) conquista il lettore fin dalle prime righe. Non si può non far credito all’autrice, e quando ha tocchi particolarmente felici, quando sfiora col pudore necessario certe profondità, il lettore consente con viva partecipazione e avverte di muoversi sul terreno dell’umanità vera, che è l’unico terreno che alla lunga conti.

 

Claudio Marabini

«Il Resto del Carlino», 2 settembre 1964

 

 

Tra una favola e l’altra, una allucinante chiarezza blocca caratteri e avvenimenti meglio di un riflettore. [...]

Onestamente la Romano ha reso a Proust, fin dal titolo [...], l’omaggio che sentiva di dovergli: ma, per la verità, la sua «penombra» non somiglia affatto a quella di Marcel; e non è per niente penombra, ma luce diffusa e scolorata, come quella dei sogni.

A una seconda lettura, del resto, ci è parso di capire qual è il carattere peculiare di questo ritorno fisico e interiore al paese nativo. Più che alla vena piemontese e pavesiana esso si apparenta a un gusto francese arcaico, rifiorente in certi scrittori del primo novecento, morti giovani o dimenticati, raffinatamente fedeli all’immagine sillabata a uso popolare, l’image d’Epinal: il clima, insomma, di certe complaintes tutt’altro che leziose.

 

Anna Banti

«Paragone», XV (1964), n. 178, p. 98

 

Abbiamo un fitto incrociarsi e integrarsi di prospettive e di voci. C’è la prospettiva del passato infantile, già con un suo spessore, via via che la realtà incomincia a prendere forma; c’è la prospettiva dei discorsi degli adulti, allusione, per la bambina, a verità e leggi ancora tutte da sondare; c’è la prospettiva del presente, che ora la narratrice proietta sul passato. Una serie di piani discorsivi che la Romano riesce ad alternare in una composizione che ha come norma il tempo: spessore, stratificazione del tempo.

La distinzione dei piani temporali funge anche da vaglio degli atteggiamenti verso il mondo: quasi tutto fiabesco, incluse le paure e le ripugnanze, nella mente della bambina, e progressivamente proiettato verso una presa di coscienza realistica; la narratrice per contro, necessariamente situata nella realtà, è spinta dalla nostalgia a recuperare qualche eco della fiaba della sua infanzia, e a riviverla. È un continuo confronto di misure: grandezze, distanze, ma anche valutazioni comparative tra i personaggi. Così il viaggio è anche, per una necessità di cui è sottaciuto il rammarico, una smitizzazione, compensata nella poesia dal precario recupero di ciò che fu.

 

Cesare Segre

Introduzione a L. Romano, Opere, Mondadori, «I Meridiani»,

Milano 1991, vol. I, p. xxxiv

 

 

Il libro si presenta nel modo più diretto come un viaggio nella memoria dell’infanzia dell’autrice e nel luogo in cui essa è stata vissuta. […]

Sarebbe però del tutto erroneo parlare di semplice scrittura autobiografica: la memoria personale acquista qui un rilievo assoluto e fatale, ritrova per le figure della vita una presenza, un colore, uno scatto che vanno molto al di la delle circostanze e dei rapporti particolari da cui sorgono, pur mantenendo tutta la concretezza di quelle circostanze di quei rapporti. Siamo certo in un orizzonte proustiano, indicato fin dal titolo del libro (che non è altro che una citazione da un passo del Temps retrouvé): ma siamo lontanissimi dal sinuoso avvolgersi della prosa proustiana […]. Anche qui ritroviamo la classica concisione e quasi reticenza della Romano. […]

Lontana da ogni aura, la memoria è un rapporto con qualche cosa di “altro”, che resta inevitabilmente staccato da chi ricorda (anche quando si tratti dei ricordi più intimamente e singolarmente individuali). Il tempo e il luogo da cui si racconta e si ricorda (e non dimentichiamo che qui il ricordo sorge da un ritorno, da una specie di pellegrinaggio nei luoghi originari, da un incontro con la loro trasformazione) non possono non deformare ciò che si ricorda: non si può ricuperare nessun passato autentico e puro, ma solo dar voce ad un passato guardato dal presente, costruito da ciò che esso è divenuto. Ma in questo modo quel passato non diventa più vicino e afferrabile: inesorabilmente lontano dall’oggi, si fa riconoscere nella sua originale, incommensurabile alterità.

Proprio da questa alterità del ricordo sorgono improvvisi lampi di perduta bellezza, tanto più forti e struggenti, sospesi in una misteriosa nitidezza. […]

Le condizioni stesse dell’esistere, il flusso del tempo e il consumarsi della vita, fanno avvertire alla narratrice che la propria esistenza e quella della propria famiglia, come quella di ogni vita passata, si trovano sotto un segno fatale […].

È un mondo assolutamente “altrove”, che il lettore al contempo sente avvicinarsi e allontanarsi, in una sua magia luminosa ed essenziale.

 

Giulio Ferroni

Postfazione a L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato,

 Einaudi Tascabili, Torino 1994, pp. 215-20

 

 

Che cosa si è detto soprattutto a proposito de Le penombra che abbiamo attraversato? La prima definizione (tra parentesi ricorderò che il titolo viene da un’espressione di Proust, presa letteralmente e messa come epigrafe al libro), quella che sembrerebbe più facile, è che questo sembra un libro di memoria: non un libro di memorie, ma un libro di memoria, per indicare un modo particolare di scrittura, di ideazione, di impostazione del libro. Però bisogna dare subito un avvertimento a questo proposito: la natura, il temperamento di Lalla Romano sono caratterizzati da uno spunto decisamente realistico, da un vivo senso della realtà. Come si concilia questo col fatto di avere scritto un libro di memoria? Si concilia con una semplice considerazione: esiste la memoria come culto, come vezzeggiamento addirittura, a volte persino puerile, dell’infanzia, dell’adolescenza, del passato; ed esiste la memoria come metodo. Nel caso di Lalla Romano dobbiamo parlare di memoria come metodo. È un modo di arrivare alle cose, di arrivare al fondo delle cose aggirando, per così dire, le cose stesse: è un modo più vivo, sia pure attraverso un aggiramento, di arrivare a rappresentare una realtà. Per questo, in questi casi, si dice che la memoria è al tempo stesso storia, fa storia, riesce a comporsi in storia e a dare anche il senso di una storia, il senso, diciamo, storico delle cose che vengono affrontate. Per cui non è più il vago della memoria, ma invece il concreto della memoria; dall’altra parte questo è anche il senso della grande lezione di Proust.

 

Vittorio Sereni

Prefazione a L. Romano, Le parole tra noi leggere,

 Einaudi Tascabili, Torino 1996, pp. V-VI.