Maria
Edizioni
Prima edizione: Einaudi («I gettoni»), Torino 1953.
Successive edizioni Einaudi: «I coralli», Torino 1965; «Letture per la scuola media», Presentazione e Note dell’autrice, Torino 1973; «Nuovi Coralli», Torino 1980; «Einaudi Tascabili», Postfazione di Giorgio Zampa, Torino 1995.
Altre edizioni: in Opere, a cura di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1991, vol. I, pp. 399-522.
Traduzione: Maria (Jean e Marie-Noëlle Pastureau), Gallimard / L’Arpenteur, Parigi 1997.
Premi
Premio Internazionale Veillon, Lugano 1954.
Titolo
Maria è una storia vera. Ho veramente conosciuto la Maria del libro; Maria ha vissuto molti anni nella mia casa, io l’ho visitata spesso nella sua, al suo paese. Forse per questo motivo la storia può dirsi vera? Anche per questo, ovviamente; ma si tratterebbe, in questi limiti, soltanto di veridicità, non propriamente di verità. Idea molto più complessa e ricca, che confina o addirittura coincide con quella di poesia.
Lalla Romano, Introduzione a Maria, 1973
Argomento
Intorno a questo personaggio femminile ruotano due storie parallele, quella della famiglia della narratrice e quella della famiglia di Maria, la serva contadina che per vent’anni vive con i padroni e il loro bambino in un rapporto di reciproco rispetto, amore, dedizione.
Due mondi, contadino e borghese, si incontrano in un momento storico particolare, la guerra; nella relazione si crea una intensa dialettica tra una povertà dignitosa e una ricchezza non tanto economica, quanto culturale, forgiata sulla modestia e l’umiltà intellettuale. La comprensione che unisce questi due mondi crea un rapporto in cui ognuno rispetta e non invade lo spazio dell’altro.
Incipit
Quando entrammo nella nostra casa, c’era già Maria.
Eravamo di ritorno dal viaggio, e camminammo in punta di piedi, perché era mezzanotte.
Io non conoscevo Maria, se non per averla vista, quando era venuta a presentarsi. Affrontare la conoscenza delle persone mi metteva in grande imbarazzo; così, da una stanza vicina, avevo spiato, attraverso l’uscio socchiuso.
Stava seduta sull’orlo della sedia, con i piedi incrociati e le mani raccolte nel grembo; era magra e minuta, vestita di nero: con un colletto, rotondo, di pizzo. Teneva la testa reclinata su una spalla; i suoi occhi azzurri e fermi, dalle palpebre piegate all’ingiù, avevano un’aria rassegnata e un po’ triste. Non ne avevo concluso niente: più che altro avevo pensato che era una figura adatta a ritrarsi nei quadri.
Antologia della critica
Il senso del libro si coglie più tardi, quando si avverte che la Maria che dà il titolo alla narrazione non è affatto la persona centrale del libro, fondato sul rapporto quasi mistico che può correre fra «padrone e servitore». […]
Ne è nato un quasi romanzo, una cronaca che non si può definire un gettone, una promessa, perché è la prova di un ingegno maturo. Se Maria portasse una firma più nota si potrebbe predire al libro una lunga e durevole fortuna; se portasse poi una firma straniera tutti ripeteremmo la solita solfa degli stranieri che sanno raccontare come noi non sappiamo e che hanno nel sangue la poesia dei petits riens. La storia di Maria è invece opera di una scrittrice italiana, e per giunta poco conosciuta. Ciò non impedisce di dire che la Romano ha scritto un libro bellissimo.
Eugenio Montale
«Corriere della Sera», 28 agosto 1953
Un libro come Maria se vivessimo in altri climi e con altre capacità di attenzione potrebbe assumere un altro significato. Potrebbe intanto voler dire che la strada della verità non è fatta in un solo modo e non passa per forza sulle voci irte e grosse della realtà: che il mondo non si consuma in una sentenza negatrice o in una costruzione di ottimismo a buon prezzo e insostenibile; soprattutto potrebbe insegnare a molti scrittori del «tempo» che la verità va prima affondata nella nostra storia, perduta e poi ripresa sotto un’altra luce e dopo una lunga trasformazione interiore. La verità soprattutto sta nell’accettazione della ripresa e la Romano ha dimostrato di saperlo se la conclusione del suo ritratto vive in una frase-chiave come questa: «Chissà cosa sarà di noi, nell’inverno». Una misura infinita e immediatamente dopo, il rapporto del tempo. La nostra verità è dunque nell’accettazione del mondo esterno, nel segno di accettazione umile della Provvidenza.
Carlo Bo
«La Fiera Letteraria», 20 settembre 1953
Non deve trarre in equivoco il modo che ha la Romano di presentare il personaggio cogliendone prima di tutto, con insistenza, l’aspetto esteriore; ma come per una pittura, un disegno che via via si fa più preciso e con il delinearsi dei contorni si accresce di profondità ed esattezza, così si riconosce attraverso il dato fisico la carica umana nascosta nella persona e che traspare dai tratti, i lineamenti, i gesti. […]
In questo modo di narrare, semplice e armonico, che nasce da una serena femminilità, la prosa, priva di facili suggestioni liriche […] scorre con un felice ritmo nel fluire delle sensazioni intrecciate ai fatti e in una semplicità verbale spoglia di compromessi. Un esempio, dunque, di stile nato dall’allinearsi delle impressioni e dei ricordi sulla traccia lasciata dagli incontri umani, dagli affetti. E un pudore di scrittura, che è poi pudore e umiltà d’intenzioni, davvero affascinante.
Francesca Sanvitale
«Giornale del Mattino», 27 gennaio 1954
Il modo come Lalla Romano fa parlanti le cose (che ogni tanto acquistano vita per sé) rivela la sua natura di poeta. Tutto il racconto fiorisce di queste presenze, vive anch’esse (tocchi lievi: una strada, un disegno di collina, l’idea d’una boscaglia; sempre in un modo fuggitivo, quasi piccoli nonnulla; e certe volte anche un che di prezioso, dove l’occasione lo richieda). Qualcosa di più intimo, allora, ne scaturisce, quasi un modo di confessarsi; ma anche un freno sempre (come dire: – Il resto è cosa mia).
Giuseppe De Robertis
«Il Nuovo Corriere», 18 marzo 1954
Con uno straordinario potere di identificazione, Lalla Romano adottò, nel suo racconto, la voce del mondo che Maria le aveva rivelato. Imparò che l’arte suprema dello scrivere era la discrezione, il rispetto, il riserbo: che, per saper dire, bisognava apprendere a «non dire». Nulla doveva essere approfondito: l’analisi non poteva mai penetrare nelle intimità delle persone: doveva accennare e subito ritrarsi; i personaggi restavano ombre, evocate nella distanza. Non c’è, nella nostra letteratura di quegli anni, libro più severo, più spoglio, più essenziale, più nudo: dove si rinunci a qualsiasi commento intellettuale, a qualsiasi eco musicale attorno ai fatti.
Pietro Citati
«Corriere della Sera», 14 dicembre 1980
Maria è un classico. […] Il libro si inscrive nettamente-storicamente in quella vera e propria «uscita di sicurezza» dal neorealismo che furono i «Gettoni» di Vittorini e, dunque, ha il suo atto di nascita non eludibile.
Maria, in questo senso, è anche una dimostrazione: non un romanzo a tesi, ma la dimostrazione di un teorema stilistico. Contro la retorica del dialettismo una cura persino esibita di «purezza» linguistica; contro la retorica del populismo, una mano ferma e signorile (è detto senza colore di classe), sobria e discreta, pietosa anche, nel senso classico di pietas, ferma e partecipe.
Lo sguardo della Romano si posa sul mondo di Maria senza incantamenti. Maria è scritto per «respiri» e gli attacchi variano, ma il complesso, che non trascura e si fissa anzi, spesso, sui particolari, con sensibilità figurativa, ne esce unitario e compatto.
Giovanni Tesio
«Nuova Società», 28 marzo 1981
Maria è un ottimo esempio di romanzo in prima persona non coincidente col protagonista. Pertanto, la prospettiva è quella della narratrice, e al centro della prospettiva sta la protagonista. Per essere più completi, la narratrice è inserita nel suo nucleo familiare, e la protagonista appare, quando la sua vita glielo rende possibile, circondata da quel nucleo familiare che è stato il suo: narratrice e protagonista stanno al centro di due schieramenti tutt’altro che avversi, ma nettamente diversi. […]
I due schieramenti sono caratterizzati sociologicamente: borghesi di fronte a contadini; e topograficamente: città contro campagna. […]
Maria, sempre dignitosa, mai dichiaratamente dilaniata, si trova davvero all’intersezione di due mondi, e lascerà quello non suo solo per avviarsi verso una vecchiaia sempre più desolata. È con straordinaria finezza che Lalla Romano registra, tocco su tocco, i tratti di questa piccola donna ricca di sentimenti e di sfumature, consegnandoci una immagine articolata del contesto contadino di cui è stata mediatrice.
Cesare Segre
Introduzione a L. Romano, Opere, Mondadori, «I Meridiani», Milano 1991, vol. I, pp. XXIII-XXIV
Maria segue la semplice vicenda di una donna di servizio, attraverso la voce della padrona di casa e “ospite” (che naturalmente coincide con la stessa autrice, in un nesso di vicende reali, anche se non senza trasposizioni e spostamenti). Con estrema dolcezza e pudore, e senza nessun sentimentalismo, il senso autentico del vivere della donna, i suoi affetti intensi e semplici, la forza delle sue radici contadine, ci vengono incontro in tutta verità, entro una fitta rete di presenze e di rapporti: il libro viene anche a salvare, con delicata riservatezza, la realtà e la civiltà del mondo contadino piemontese, riconoscendo la nuda autenticità di tante povere esistenze che in esse hanno luogo e si consumano (senza nessuna concessione alla retorica popolare del neorealismo allora in voga).
Giulio Ferroni
Postfazione a L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato,
Einaudi Tascabili, Torino 1994, pp. 212-13
Il racconto potrebbe anche intitolarsi «Maria o del rispetto», ma la disgiuntiva sarebbe inutile: il rispetto, proprio perché è tale, non si dichiara. La narrazione deve essere presentata per quella che è: limpida, distaccata rappresentazione di una vita umile. Opera di esordio della Romano narratrice, essa contiene – non latenti ma manifesti – i caratteri della sua arte, fondata su un riserbo che evoca e rivela con velature, chiaroscuri, mezze luci. […]
Il richiamo a Flaubert sembra inevitabile per la Romano, quando si parla del mot juste, del disegno rigoroso del racconto, della distanza tenuta dal narratore nei confronti della materia, per eliminare ogni rischio di pathos, per prosciugare la prosa da rugiada sentimentale. […]
Per questo, soprattutto per questo, mi sembra, Maria è un’opera unica nella nostra letteratura a metà del secolo. A sé stante nella vivace collana in cui apparve, di una qualità mantenutasi intatta nei decenni successivi, nel sorgere e declinare di mode, di maniere, di obbedienze e adeguamenti a ideologie, a lusinghe mondane e mercantili. La vita della contadina di Villar ha conservato la freschezza, l’incanto della sua prima apparizione.
Giorgio Zampa
Postfazione a Maria, Einaudi Tascabili, Torino 1995, pp. 148-52