Le metamorfosi

Copertina Le metamorfosi

Edizioni

Prima edizione: Einaudi («I gettoni»), Torino 1951.

Successive edizioni Einaudi: nuova edizione «I coralli», Avvertenza dell’autrice, Torino 1967; «Supercoralli», Notizia dell’autrice, Torino 1983; edizioni anastatiche, riservate agli amici del Punto Einaudi e della Casa editrice, Torino 2001; «Einaudi Tascabili», a cura di Antonio Ria, Postfazione di Andrea Cortellessa, Torino 2005.

Altre edizioni: Oscar Mondadori, Introduzione di Vittorio Sereni, Milano 1986; in Opere, a cura di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano 1991, vol. I, pp. 205-397.

Premi

Premio Soroptimist, Milano 1968.

Titolo

In nova fert animus mutatas dicere formas corpora [L’anima mi spinge a cantare le forme mutate in nuovi corpi: Ovidio, Metamorfosi, l. I, vv. 1-2]: mutazione più che trasfigurazione, Ovidio piuttosto che Kafka è il riferimento culturale a cui allude il nome del libro, perché sogni e miti attingono alla medesima fonte.

 

Lo intitolai Le metamorfosi – proprio dal vecchio Ovidio – perché mi piaceva la parola, collegata a una paura d’infanzia, e perché avevo sempre pensato che le trasformazioni così tipiche dei sogni fossero della stessa stoffa di quelle che si incontrano nei miti e nelle fiabe.

Lalla Romano, Notizia a Le metamorfosi, 1983

  

Argomento

Primo libro in prosa di Lalla Romano, scelto da Elio Vittorini per inaugurare la collana dei «Gettoni»,  presenta i sogni di cinque personaggi, senza interpretarli, né commentarli. Le diverse edizioni hanno notevoli differenze: nella prima la struttura è divisa in cinque parti; nella seconda (1967) in quattordici, con l’inserimento di nuovi sogni e dei nomi dei relativi narratori; nella terza e definitiva (1983) si ripropone lo schema originario, con l’aggiunta di altri sogni.

 

Incipit

   I pirati

 

   Sono il capo dei pirati su una vecchia nave a vela: i pirati sono i miei compagni di scuola. Siamo vestiti come straccioni. Abbiamo paura perché siamo inseguiti da un pesce. La nave fila a grande velocità, ma il pesce ci insegue sempre da vicino. Arriviamo davanti a una città tutta bianca, dominata da una fortezza. Gli abitanti vestono di azzurro. Sono i nemici. Il pesce è a bordo e dice: – Finalmente vi ho presi –. Siamo imbarazzati davanti a lui, ma non abbiamo più paura. Parlamentiamo con quelli della città. – Se non vi arrendete spariamo il pesce –. Il pesce è d’accordo; in verità il suggerimento è stato suo. Si fa più piccolo perché possiamo infilarlo nel cannone. Lo spariamo contro la fortezza che viene colpita in pieno e sprofonda: è scomparsa. Scendiamo nella città, armati. Meniamo sciabolate, e gli abitanti, sempre illesi, saltellano qua e là, piegandosi in due per il gran ridere. Non riusciamo a ucciderne nemmeno uno. Torniamo a bordo e ci consultiamo col pesce che è di nuovo lì. Gli abitanti, con carri e carrette, si sono rifugiati in una foresta fuori della città. Là il pesce ci consiglia di assalirli: così facciamo. Essi si arrampicano sugli alberi e non la smettono di ridere. Allora decidiamo di ritornare a bordo. La nave se n’è andata senza di noi; la vediamo lontana sul mare. Fuma: è diventata una nave a vapore.

 

Antologia della critica 

Le metamorfosi sono sogni, i sogni che si possono raccontare, veri e propri sogni sognati, dalla scrittrice o da altri, e, com’essa dice, solo per la loro bellezza trascritti dalla meticolosa e affascinata memoria. Racconti di esatta definizione di colore, di disegno, di linguaggio: se qualche lontana attrazione allegorica può richiamare il nome di Kafka, più naturale ci sembrerebbe il richiamo per la maestrevole lucidità e misura con cui ogni capriccioso percorso del sogno è fermato nel tempo. [...]

Ma il segreto vero di questi sogni è, con l’espressione di Dante, la «passione impressa» che rimane: la voluttuosa penetrazione di quel limbo di tutte le cose, in cui i miraggi della vita reale e la subcoscienza si scontrano, scambiandosi appena percettibili confidenze.

Franco Antonicelli

«La Stampa», 18 maggio 1951

  

Questo libro […] affronta coraggiosamente, in primo luogo, un rischio d’ordine essenzialmente pratico: non sono racconti, non sono poesie, non sono saggi; che cosa sono?

Sono visioni «visioni liriche». […]

Quel che importa è la relazione, stabilita per via emozionale, tra vita organica e vita sognata: la parentela (il sogno, dopo tutto, è ancora cosa degli uomini) che fa ripercuotere nelle dimensioni surreali del sogno interessi e ragioni umane; che riconosce e restituisce, in una parola, umanità ai sogni.

Se il libro dovesse recare una fascetta, suggerirei di riprodurre questa scritta premessa al sogno del centauro: «Non esistono incontri semidivini o ferini, esistono solamente incontri umani». Giacché in questo soprattutto, oltre che negli effetti particolari di pagine che trascriverei volentieri, sta la novità e, direi, la necessità di quest’opera. 

Vittorio Sereni

«Milano Sera», 11-12 giugno 1951 (poi come Prefazione

 a Le metamorfosi, Oscar Mondadori, Milano 1986, pp. VII-IX)

 

Vorrei sottolineare l’importanza del «presente», sia per caratterizzare subito la fatica della Romano, sia per separarla da una larga famiglia di scrittori che si sono serviti del limite del sogno per procedere nella loro caccia dell’ignoto. […]

Direi che le sue ambizioni sono classiche: l’uso del presente deve metterci in guardia per cogliere subito il suo bisogno di verità naturale. I suoi sogni non aspirano neppure al limite dell’interpretazione, per lei la metamorfosi si ferma alla prima ragione della visione. […]

La critica ha cercato finora di gettare a caso diversi nomi […]. Il libro della Romano vive per ragioni sue, ha dentro di sé forza sufficiente per resistere a un incontro libero: sarebbe ingiusto limitarlo nel quadrato delle speculazioni letterarie.

Carlo Bo

«La Fiera Letteraria», 15 luglio 1951

 

I settantaquattro sogni sono ora divisi in quattordici sezioni che ne indicano, sia pur largamente, i temi; e vengono attribuiti a una serie di personaggi che appunto li raccontano. Ecco dove il libro della Romano può diventare originalmente quasi romanzo: nel ricostruire indirettamente, con l’aiuto del lettore, una storia, una psicologia, un destino a ciascuno di questi «sognatori» sulla base della particolare realtà del sogno. […] La Romano vi impiega una scrittura trasparente, spoglia, veloce, senza compiacimenti romantici o simbolismi forzati, come se dovesse dar relazione di qualche cosa che realmente è accaduto. Di qui viene al libro un timbro unitario, una geometria cristallina che non sconfina mai nel gratuito.

Giuliano Gramigna

«Amica», 8 agosto 1967

 

Questo libro esprime proprio la frizione tra questi due piani: la logicità e l’irrazionalità. Il tentativo, poeticamente risolto, di aprire al discorso, tenendosi dentro i termini della chiarezza, una frangia misteriosa, chissà quanto ampia, della realtà. Ma il fuoco di Lalla Romano non punta sulla stranezza in sé del sogno, quanto sul décalage che in esso si verifica rispetto al quotidiano. Il significato, per la scrittrice, sta dove il quotidiano si presenta «a insegne cambiate». Insomma, un libro attualissimo.

Domenico Porzio

«Panorama», 9 settembre 1967

 

Questi sogni così sottilmente calibrati piacquero a Vittorini, che scrisse il suo consenso nel risvolto di copertina e sottolineò lo stile secco che dà concretezza all’indeterminato, la cura umanistica delle parole lavorate di fino. Ma il risvolto migliore Vittorini lo scrisse in una battuta, quando in privato centrò con golosa allegria il suo bersaglio definendo Le metamorfosi prose che «si mangiano come noccioline». […]

Ora Lalla Romano è tornata sui suoi sogni e dopo più di trent’anni, con un intrigante rinvio a Baudelaire, li ha voluti riportare nel loro testo primitivo: quello delle noccioline di Vittorini. 

Giovanni Tesio

«Tuttolibri», 19 marzo 1983

 

Lalla Romano è riuscita a un miracolo […]: è riuscita a imprimere alle parole di cui il sogno si veste una fatale tensione, una necessità ironica, e un ritmo sospensivo, dove avvertiamo la presenza d’una persona che, raggiunto lo stato di veglia, non vuole dire addio a quanto ha invaso la sua immaginazione; e là cerca se stessa.

Enzo Siciliano

«Corriere della Sera», 11 aprile 1983

 

Vedere, scoprire, smarrire, godere, capire: questa sequenza di verbi (che indica il passaggio dalla registrazione delle immagini al possesso delle emozioni, dal coinvolgimento nelle avventure alla concentrazione dell’esperienza in episodi esemplari) riassume molto bene l’itinerario attraverso il quale Lalla Romano ha trasformato la memoria in letteratura.

Nei sogni – identificati come «memoria prima», come fiabe e miti – Lalla Romano ha individuato le «invenzioni» (le prime «epifanie») della realtà. […] Lalla Romano, in altre parole, ci ha dato (in anni di neorealismo postbellico, compiendo una radicale trasgressione contro il moralistico neonaturalismo socio-pedagogico allora imperante) uno splendente romanzo psico-biologico.

Raffaele Crovi

«Il Giorno», 29 maggio 1983

 

Credo che Lalla Romano abbia visto nel sogno la possibilità di una «narrazione pura», cioè liberata dalle motivazioni e dalle connessioni, che sono spesso pseudoconnessioni. In questa narrazione pura gli oggetti, i colori, i movimenti assumono qualcosa di noumenico; o, se si preferisce, hanno la purezza e la definitività dell’immagine.

Cesare Segre

Introduzione a L. Romano, Opere, a cura di C. Segre,

 Mondadori, «I Meridiani», Milano 1991, vol. I, p. XIX

 

Le metamorfosi sono l’autentica soglia dell’intera opera [di Lalla Romano]. Non è un caso che, nella Penombra, quando vengono rievocate le infantili paure legate al termine «metamorfosi», la scrittrice ricorra a metafore che ne sottolineano il valore liminare: «rileggevo quella parola per penetrarla. Ma essa era come una porta chiusa, piena di mistero». Su cosa vi sia oltre questa soglia può dare indicazioni un sogno dal titolo, appunto, Le porte, che la Romano si attribuisce. […] Vera metafora delle Metamorfosi, questa soglia apre un varco solo in direzione di se stessa: ripetendo e amplificando il movimento centripeto di ogni altro sogno che ha in sé e non altrove la sua spiegazione. In tale visione onirica noi abbiamo un falso spostamento, che scopre in ogni al di là un medesimo al di qua. Nel solo spostamento, dunque, e non nella sua meta, sta la verità: quella che la Romano con l’ausilio della memoria va cercando nell’al di qua della sua vita. Di qui la strenua vocazione all’immanenza. Una verità che non è psicologica.

Massimo Onofri

Lalla Romano: Opere, in «Nuovi Argomenti», serie III (1991), n. 40, p. 123
(poi, col titolo Appunti per un ritratto di Lalla Romano, in Id. Il sospetto della realtà.
Saggi e paesaggi italiani novecenteschi, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2004, pp. 179-80)

 

Le metamorfosi, libro assolutamente «fuori tempo», passato quasi inosservato alla sua prima apparizione (1951), fatto di brevi testi in cui si descrivono dei sogni: sogni che si impongono nella loro immediata evidenza […]. Il sogno è qui visto nel suo diretto e ingiustificato valore di esperienza, che trova le sue vere e autentiche ragioni in se stessa, nel proprio tessuto interno: in queste descrizioni di sogni veniva già a dispiegarsi nel modo più pieno quella essenzialità e precisione di linguaggio, quella immediata classicità che nella Romano sarà carattere costante, ma che già si manifestava nell’estrema nitidezza sentimentale della sua poesia. 

Giulio Ferroni

Postfazione a L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato,

 Einaudi Tascabili, Torino 1994, p. 212

  

Il supporto di un’immagine sulla quale tornare e ritornare resta, per Lalla Romano, base di fissaggio indispensabile allo sviluppo di quella misteriosa sostanza che chiamiamo memoria. Senz’altro questa «lettura d’immagini» vale, a livello virtuale (ma effettivo), per gran parte della sua produzione narrativa: nella quale, non a caso, spesso l’accensione della reminiscenza brilla da un aide-mémoire in forma d’immagine. […] Immagini che hanno spesso valore di allegorie se non, appunto, di emblemi. […]

Il tornare costante dell’autrice su questo suo testo, in fondo, così poco fortunato ha il senso di una continua interrogazione: su una Lalla che poteva essere e non è stata. Oppure, capovolgendo il ragionamento, proprio quell’unicum rappresenta – nel suo complesso – l’immagine di partenza, dalla quale evolvere verso la propria individuazione. Per questo l’autrice torna, ogni volta, a commentarla. […]

Realtà e sogno si specchiano e si confondono, dunque. L’insistenza frequente dei frammenti delle Metamorfosi su figure di passaggio e attraversamento (ovvi correlati, del resto, del continuo mutamento) può essere letta, allora, come ulteriore eco di Kafka: e del continuo divenire-altro (per dirla con Deleuze) che nei suoi testi, di là dal set onirico, viene costantemente raffigurato. 

 Andrea Cortellessa

Postfazione a Le metamorfosi, Einaudi Tascabili, Torino 2005, pp. 218-224